Con un’altra strepitosa copertina di chiude
Moby Dick.
Leggendo qua e altrove, ho notato come questa seconda parte della storia firmata da Artibani, Mottura e Andolfo ha convinto meno la maggioranza dei lettori, scottati da una velocità degli eventi, da un colpo di scena banale e da altre soluzioni considerate non idonee.
Non è questo il mio caso: sarà che prima ancora di leggere la prima parte mi ero imbattuto in un articolo che diceva chiaramente chi si celava sotto le vesti di Trallallà, e quindi me l’ero già messa via come cosa assodata fin dal principio. Ma non solo: leggendo l’episodio della settimana scorsa, era chiaro dalla scarsità di avvenimenti e dalla tranquillità narrativa che si respirava – tutto atto a introdurre i personaggi, le motivazioni, la missione del protagonista e l’ambientazione – che questa seconda parte avrebbe dovuto essere, di contro, un turbinio di avvenimenti, ma sempre con quella trentina di tavole a disposizione. Qualcuno invocava la necessità di avere una terza parte per rendere più armonica la scansione degli eventi, ed effettivamente non sarebbe stato male, anche secondo me la storia ne avrebbe giovato. Resta il fatto, però, che anche così stiamo parlando di un’opera magistrale sotto tutti i punti di vista della fase produttiva. La sceneggiatura infatti funziona: nei dialoghi, forti e potentissimi, ma anche nella stesura della storia, visto che a mio parere la suddivisione quasi netta di prologo nel primo tempo e corpo del racconto nel secondo ci sta, funziona, e al netto di qualche passaggio effettivamente un po’ accelerato
(nel giro di poco Quachab subisce la minaccia sia di Trallallà che dei Bassotti) quello che offrono le ultime tavole è un’iniezione di adrenalina potente, una girandola di avvenimenti che portano a quella bella riflessione finale, accennata già nella prima parte, che restituisce quel tocco filosofico che fa parte del romanzo originale.
I disegni di Mottura sono meravigliosi. Voglio subito sganciarmi da qualunque polemica al riguardo
Mi limito a dire che personalmente li ho apprezzati molto, che lo stile tanto di disegno quando di organizzazione delle tavole mi trova entusiasta e che tutto ciò, unito ai sempre splendidi colori della Andolfo rendono ogni singola tavola uno spettacolo per gli occhi. Le enfatizzazioni, la cartoonizzazione, gli arabeschi che si incontrano nelle vignette sono un omaggio all’artisticità del disegno e alle atmosfere barocche che una storia come questa inevitabilmente chiede e vuole trasmettere.
Il punto importante di
Moby Dick, a mio modo di vedere, è da identificare nel progetto che sta portando avanti Artibani da quando è tornato in Disney, quella scrittura consapevole e rispettosa dei personaggi, che va a trovarne le caratteristiche vincenti e le immerge in trame coinvolgenti e ambiziose, innalzando lo standard qualitativo del settimanale. Più in generale, in questo periodo di indubbio rilancio dell’immagine di
Topolino verso i lettori di fumetti in generale, avere cose del genere sulla testata ammiraglia e pubblicizzarle in modo interessanti tramite sito, video, interviste e Facebook è sicuramente un’ottima cosa.
Parlavo dei disegni di Mottura, poco fa: giusto per chiudere la parentesi e continuare ad analizzare l’albo, preferisco queste tavole così ricercate a quelle senza infamia e senza lode di Luciano Gatto nell’ultima storia:
Gambadilegno e un compito illegale è una storia che non si vorrebbe leggere, e i disegni di Gatto la completano perfettamente. Non perché siano brutti, il disegnatore ha quel suo stile pulito e lineare che per certi versi è anche piacevole, ma che in una storia con questa trama si prestano ad accentuare quell’aria semplicistica dei personaggi. Tanto Artibani rende gli standard character vivi e reali, quanto Pesce in questa avventura li rende macchiette assurde, a cui non si può credere, con cui non ci si può immedesimare tanto agiscano in modo irrazionale. Inutile tirare in ballo il Gamba di Faraci, che io apprezzo tantissimo ma che è tutta un’altra cosa e con tutta un’altra filosofia dietro, che nulla ha da spartire con Pietro che fa da baby sitter a Tip e Tap. Altro che il Gamba del 3000 con la partita di calcetto!
Se quindi i presupposti sbagliati minano la storia fin dalla seconda tavola, l’autore costruisce una storia in cui rende i nipotini di Topolino assolutamente antipatici e ligi al dovere in maniera poco credibile per come viene sbattuta sul muso a Pietro, per poi sfociare nel nonsense di Gambadilegno camuffato da scolaro. Che sia voluto o non voluto, è un nonsense non riuscito in una storia da dimenticare.
Manco Macchetto si salva, visto che
Nonna Papera e l'invasione degli Ultracraker passa via senza lasciare molto: ancora Nonna Papera, qualche gag con Ciccio, ancora alieni bla bla bla. La cosa del grano invasore che si trasforma in cracker poteva anche essere simpatica nell’ottica di presa in giro di certi b-movie horror, ma non c’entra l’obiettivo.
La storia di Filo e Brigitta, infine, è una breve simpatica, perché sfrutta un tormentone nel giusto spazio per farlo, anche se scade un po’ nel finale. Ma strappa un paio di risate nel modo giusto, e quindi il suo compito lo svolge.
Infine, segnalo che già si parla di
Monsters University con largo anticipo, ed è bene perché le campagne pubblicitarie si costruiscono per tempo e con iniziative simpatiche, come in questo caso. E’ da notare poi il breve pezzo di Grrodon, che parla di
The Blue Umbrella (il nuovo corto Pixar) riuscendo in poche righe a parlare di influenze, tecnica e obiettivi di regista e sceneggiatori. Un altro tassello importante della cultura dell’animazione viene portato avanti da Valerio sulle pagine del “
Topo”, il che è tutt’altro che banale e facile. Continua così