Condivido con voi una interessante scoperta su una storia classica di
Rodolfo Cimino, "Zio Paperone e la febbre dell'oro" (
I TL 809-A,
1971), disegnata da Massimo De Vita.
È una bella storia, ben congegnata, con i classici ingredienti
ciminiani: il vecchio saggio, le considerazioni morali sul valore del
lavoro, le prove da superare eccetera. Ricordo di averla sempre
trovata molto suggestiva. Di seguito la trama in breve.
L'oro di Zio Paperone ha la febbre! Essendo inefficaci i rimedi dei
medici tradizionali, il magnate segue la cura proposta da un guaritore
indiano, consistente nel disintossicare il peculio facendogli
affrontare le tre prove del deserto. Il multimiliardario, con al
seguito due ciclopiche ceste di vimini piene del suo denaro, si
cimenta con le prove, non senza difficoltà, per poi scoprire che
l'innalzamento di temperatura era dovuto a una fuga di vapore da un
tubo sotterraneo. A quel punto Paperone si sveglia di soprassalto e
scopre che era stato tutto un orribile sogno: "Eh, eh! Io potrei avere
la febbre dell'oro, ma il mio oro mai potrebbe avere la febbre!", dice
sorridente mentre si tuffa nelle sue monete.
Ora, a rileggere dopo anni quella storia che da piccolo avevo sempre
trovato affascinante, in questo finale noto qualcosa che stona: un
netto stacco, sia logico che stilistico. È un finale abbastanza a
pera, diciamocelo, che vanifica tutta l'elaborata costruzione della
storia e che non è affatto ciminiano. Come lessico ricorda casomai
Dalmasso, della di cui propensione a mettere pesantemente le mani
sulle sceneggiature altrui mi avevano infatti già ampiamente
raccontato sia Cimino che Pezzin e Barosso. Più leggo e rileggo quelle
due tavole finali e più mi convinco che quella conclusione ridondante
e insipida dev'essere apocrifa ed opera probabilmente del troppo
solerte colonnello.
Chiamo allora Rodolfo al quale sottopongo la questione: c'è una
vecchia storia tua che secondo me è stata modificata da Dalmasso,
posso raccontartela e vediamo se ti ricordi? Risponde che senz'altro
Dalmasso, come già mi aveva detto altre volte, apportava parecchie
modifiche di testa sua, ma che gli sarà probabilmente difficile
ricordare la storia precisa. Ma io non mi arrendo e gliela racconto
ugualmente, con dovizia di particolari: ah, sì, sì, me la ricordo
bene, risponde! Allora tiro fuori il finale: secondo me questa storia
del sogno non c'entra niente col resto; te l'ha aggiunta Dalmasso, no?
E lui senza ombra di dubbio conferma: certo, di sicuro non è roba mia!
Non ha senso, rovina tutto il meccanismo. La storia già aveva la sua
trovata per concludere la vicenda (appunto la storia del vapore) e il
sogno la sfiata, la rende inutile. Quindi, dice Rodolfo, senz'altro
l'ha aggiunta lui.
Ecco qui. Pezzetto per pezzetto ricomponiamo il puzzle
filologico. Senz'altro chi volesse proseguire nella strada qui aperta
potrebbe cercare nelle storie precedenti e probabilmente troverebbe
altre tracce di ingerenza dalmassiana. Rodolfo, a un certo punto, dopo
l'ennesima arbitraria modifica ad una sua storia, si appellò al
direttore Gentilini il quale da allora in poi vietò a Dalmasso di
mettere le mani sulle storie del Nostro. Per fortuna! Ma questa, a
quanto mi risulta, è la prima modifica dalmassiana INTERNA A UNA
STORIA (*) ad essere stata indipendentemente identificata ed
ufficialmente confermata.
(*) Preciso ciò perché altrimenti ci sarebbe quella ben più evidente
becera manomissione sul raccordo del Classico in cui alla fine della
storia di Reginella quel buzzurro di Dalmasso fa tuffare Paperino per
ripescare il medaglione e andarlo a rivendere ad un
gioielliere. Bleah! E questa Rodolfo non la sapeva nemmeno, fino a
quando non gliela raccontai tempo fa, perché non aveva mai letto il
classico.
Chiudo citando un'espressione per me insuperabile dall'ultima
divertente storia che Rodolfo ha appena scritto, "Zio Paperone e la
tribù dei sei piedi": spaparanzati sul divano dopo un lauto pranzo,
Paperino, Battista e i nipotini meritatamente godono la loro SATOLLA
BEATITUDINE! Quell'uomo è un grande...