Lucca Comics 2019: intervista a Francesco Guerrini

09 NOV 2019

Il Papersera in occasione di Lucca Comics & Games ha intervistato il disegnatore Francesco Guerrini, a pochi giorni dall’uscita della storia “Paperino conquistatore vichingo” pubblicata sul numero 3335 di Topolino.

Qui di seguito l’intera trascrizione dell’intervista realizzata:

Siamo qua con Francesco Guerrini, storico disegnatore della Disney, che ringraziamo per aver partecipato a questa intervista. Allora, Francesco, come hai cominciato in Disney? Come è partita questa avventura?

È partita un po’ per caso perché io in realtà volevo fare l’illustratore e avevo trovato dei lavoretti di disegno per delle pubblicità. Poi un giorno, un mese che avevo guadagnato pochissimo, ho provato a fare questo salto ed è stato buffo perché ho preso un numero di Topolino e ho fatto il numero della segreteria della Redazione: “Sono un disegnatore, vorrei parlare con qualcuno per far vedere i miei disegni…”, e la segretaria mi ha detto: “Le passo Carpi”… “Quel Carpi?!”. E mi ha passato il signor Carpi. Mi sono spiegato, lui mi ha detto di portare dei disegni, era l’inizio dell’estate e passai tutto agosto a disegnare. Era il 1990, l’anno dopo la partenza della Scuola Disney, di Disney Italia.

Io continuo a chiamarla “Scuola” Disney perché dopo hanno fatto l’Accademia ma io non l’ho mai frequentata: andavo a sentire le chiacchierate del signor Carpi, che pur non avendo mai insegnato a noi come si disegna ci dava moltissime indicazioni per imparare a disegnare. L’ho sempre ritenuto un ottimo insegnante perché… non insegnava a disegnare! Diceva: “Arrangiati, guarda questo, copia questo, copia quello, copiali tutti, poi rifai tutto da solo” e poi, come stavo dicendo prima, spiegava il senso di alcune storie, che facevano capire i personaggi, amarli e cercare poi di riproporli.

Quale consiglio ti ha dato Carpi che negli anni porti con te?

La frase più forte: “Non importa se mi porti un disegno fatto male, dicendo ‘scusa, la nonna mi ha picchiato ieri sera, ho disegnato male…’, tu mi devi portare il massimo e poi cominciamo a migliorare”. Poi naturalmente dava delle spiegazioni. Stavo facendo mente locale alcune settimane fa mentre facevo delle art class al FICO, dove c’era la mostra dei 70 anni di Topolino: il signor Carpi dava magari un suggerimento su come rifinire un’orbita dell’occhio di Paperino, come fare la pieghina all’angolo del becco, i particolari. Per il resto lui voleva che la gente facesse da sola.

In effetti poi dalla scuola di Carpi sono usciti stili completamente differenti.

Infatti quelli che sono i maestri di adesso, Faccini, Freccero, Mottura, Mastantuono, Intini (non vorrei dimenticarmi qualcun altro), sono stati un po’ a scuola anche da Giorgio Cavazzano ma sono partiti dall’insegnamento del signor Carpi.

Oltre a Carpi, nella tua esperienza di fumettista in Disney si legge una profondissima eredità barksiana. Cosa significa Barks per te e da cosa cerchi di attingere rispetto a quello che ha fatto?

Io cerco di non copiare anche se ammiro disegnatori come Jippes, che penso sia bravissimo. Cerco di non copiarlo. Amo Barks perché è sicuramente il maggior raccontatore ed è quello che ha tirato fuori qualsiasi aspetto comico, divertente di Paperino. Ci sono storie in cui Paperino è così scemo che più scemo non si può e ci sono quelle in cui Paperino è un eroe: per esempio, in “Paperino in vacanza” è un eroe, pur essendo anche un pasticcione un po’ sfortunato.

La capacità di raccontare di Barks, che penso venga dal fatto di essere stato autore di cartoni animati, è fantastica. Io me ne sono reso conto soltanto dopo aver letto un libro in cui spiegava che quasi tutte le storie di Paperino erano fatte di 10 pagine. Come di 10 pagine?! C’è scritto un mucchio di roba! E invece erano tutte di 80 vignette, che se le facessimo su Topolino sarebbero sulle 13 pagine: 13 pagine sono sufficienti per raccontare una storia se uno è capace, se non si perde a far vedere che Paperino cammina, poi entra in casa, poi apre la porta. No, si entra nell’azione. Stavo pensando ai cartoni animati: nel primo mezzo minuto nei cartoni animati belli di Paperino si capisce tutto, dove sono, cosa fanno, cosa succederà tra poco… Barks entrava nell’azione senza prenderla da chissà dove. Un maestro raccontatore, di sicuro.

Nel parlare di Barks ti stimolo a parlare anche di quello che da molti è considerato il suo erede: Don Rosa. È diverso rispetto a Barks? Cosa ne pensi e in cosa si differenzia?

Dunque. A me Rosa non piace come disegna, purtroppo, mi sembra un disegno un po’ pedante. Però ha delle belle idee, perché amando i personaggi in alcune storie è stato bravissimo. Specialmente nelle storie che hanno un certo collegamento con la realtà è riuscito a tirar fuori delle idee. Ho letto il sequel [“Paperino e le carte perdute di Colombo”, ndr] della storia di cui ho appena fatto il prequel [“Paperino conquistatore vichingo”, ndr] ed è interessante perché le idee sono belle.

Come inventore di storie certe volte le prende proprio bene. In un’altra storia che mi è piaciuta molto [“Il ritorno di Super Segugio”, ndr] Paperino beveva un medicinale e diventava un supereroe precorrendo Hancock: succedevano a Paperino le cose che succederebbero veramente a un supereroe con la fisica, cioè tira su una nave e la nave si chiude a compasso, tira su un’isola e l’isola si sfarina e via così. Sono gag da ingegnere, da fisica dei supereroi. Altre volte forse si è lasciato un po’ trasportare dall’amore per Paperone…

D’altronde è stato anche molto presente come autore di seguiti o di storie sul Paperone di Barks.

Sì, tanto di cappello al lavoro di ricerca su tutte le battute che poi ha messo in ordine e storicizzato: la tuba comprata di seconda mano, la moneta, qualsiasi riferimento ai parenti. Un lavoro da certosino. Secondo me non era necessario, perché non ci importa dove abita veramente Paperino o quand’è che è andato a scuola, perché a seconda delle storie cambia casa, cambia vicini, cambia mestiere. Però è sicuramente un lavorone.

Mi collego appunto al prequel del “Cimiero vichingo” che è stato scritto e sceneggiato da Riccardo Secchi e che è uscito poco tempo fa in edicola. Cosa ci dici di questa storia? Cosa hai apportato di tuo?

Intanto mi è piaciuto di più del remake del “Ventino fatale”, perché rifare il “Ventino fatale” – e l’ho dichiarato – è stato come se Catena [Davide Catenacci, ndr] mi avesse dato uno scopino da gabinetto, un secchio di catrame e m’avesse detto: “Toh, rifai la Cappella Sistina”. Non si può rifare una storia, specialmente così bella e piena di cose, come il “Ventino fatale”. Fare un prequel è stato molto interessante. Intanto mi sono divertito. Mi sono detto: “Cerco di impegnarmi, naturalmente non posso stare alla pari ma almeno cerco di rendere bene”. Sapendo che Barks si documentava molto, mi sono documentato per quel che fosse possibile. Non ho fatto degli studi storici particolari, ma su alcuni aspetti, su ciò che si doveva vedere dei vichinghi, ho guardato bene: come erano costruite le navi, dove andavano, da dove venivano, cosa facevano, come vivevano, le capanne, quei matti in Norvegia che si fanno le vacanze vichinghe con tutte le costruzioni, cercando di restare un po’ sul comico, naturalmente.

Poi ho detto al caporedattore che secondo me alcune gag non erano centrate e allora Davide Catenacci m’ha detto di fargli delle proposte. Ho scritto una serie di cose che mi sembravano più in linea con le storie di Barks e anche più usabili per un’ambientazione storica. Sono andato lì, ho detto di essere anche disposto a discuterne con l’autore. Quella volta però Secchi non è venuto e Davide ha fatto molto l’avvocato del diavolo (“Perché hai fatto questo? Perché così? Perché cosà?”). Poi, evidentemente ci avevo preso ed ha accettato le mie proposte. Avevo introdotto il cantastorie, secondo un po’ il modo di raccontare dei vichinghi, ma quasi tutti i suoi verseggiamenti sono stati molto sintetizzati.

Mi ero impegnato tantissimo nel far parlare gli antenati dei Peeweegah, che avevo introdotto io perché c’erano altri personaggi, come nella storia di Barks “Zio Paperone nella terra degli indiani pigmei”, nella quale parlano tutti quanti in versi ottonari come nel poema di Longfellow, The Song of Hiawatha. Naturalmente non ho potuto fare venti pagine di rime, però parlavano tutti quanti in quella maniera lì. E invece purtroppo hanno detto che non ci stavano e li hanno tolti tutti, però almeno il sugo del discorso è rimasto.

Ho scritto 22 tavole ma non mi interessava figurare come coautore: ho dato il mio contributo, lo hanno accettato per cui io sono già soddisfatto. Ti dirò francamente che questa intervista che ho appena visto con Giorgio Cavazzano e Andrea Freccero è stata interessante, però io dico che il lavoro del disegnatore è il disegno, per cui dovresti vedere come ha disegnato, non tanto stare a chiedere come ha fatto questo, come ha fatto quello, perché i numeri dei Bassotti sono quelli, che è una domanda assurda…

Una domanda meno assurda, invece, è sul tuo stile che è assolutamente originale e inconfondibile ma un pochino atipico se pensiamo a Cavazzano, a Carpi o a Freccero che sono considerati adesso i modelli del Disney made in Italy. Nonostante questo è uno stile molto amato dai lettori.

Una volta, però, ricordo un lettore su una storia di PKNA aveva scritto “Se fate disegnare ancora Guerrini mandiamo i cimicioni corazzati a distruggere la Redazione”. Io da quel momento lì non ho più letto critiche, ho detto: “Disegno finché mi prendono i disegni”; se devo andare a leggere qualcosa che mi dispiace non leggo più le recensioni…

Dunque, il mio stile. Ti dirò, sinceramente io penso che ogni disegnatore sappia benissimo chi è più bravo di lui. Io penso di essere un disegnatore nella media, cerco di fare il massimo che posso, non amo copiare per cui non mi sono mai trovato a copiare, per esempio, Cavazzano. Mi sono accorto che senza rendersene conto a volte si rifà il disegno di quello che è il disegnatore amato. Io da piccolo ammiravo tantissimo Bottaro, crescendo ho imparato ad apprezzare il disegno di Carpi, che è un disegno più adulto, sporco, a volte impreciso mentre Bottaro non fa mai un’imprecisione. Però il disegno di Carpi è spesso più divertente. Bottaro è perfetto, come è perfetto De Vita e come è quasi sempre perfetto Cavazzano.

Carpi ha delle imprecisioni che a volte lo rendono divertente. Adesso in quest’ultimo anno in cui sono stato fermo mi sono guardato tantissimo Hubbard e anche i disegni della Carica dei 101, della Spada nella roccia, perché, passando a Carpi, ho capito una cosa che mi avevano detto nel 1991 e non ero mai riuscito a metterla in pratica. Santillo mi disse: “Tu usi troppo la matita come traccia e poi ripassi tutto col pennello”.

A parte il fatto che sto litigato col pennello da morire, finalmente sono riuscito a capire, guardando bene come disegnava Carpi, come disegnava Hubbard e come venivano disegnati i cartoni animati della Carica dei 101 e della Spada nella roccia e un po’ alla volta ho cominciato a seguire la matita: sto cercando di fare un’inchiostrazione che faccia sentire la matita. Sulle ultime due storie, quella dei vichinghi e una che ho consegnato con Zio Paperone e Brigitta, mi sono impegnato molto a seguire la matita e a farla venire fuori sotto al pennello. Diciamo che sono quelle cosine che quando ti riescono ti lasciano soddisfatto di aver fatto un bel disegno.

Hai dato il massimo.

Sì, ne sono sicuro. Poi naturalmente Andrea [Freccero, ndr] mi sta correggendo parecchio: devo riguardare i disegni, l’anatomia dei paperi, devo sfoltire le vignette ed è vero. Però intanto penso di prendere questa strada qua che già era una frase che mi aveva detto il signor Carpi: “Tu vai bene con la matita”.

Una curiosità: come sceneggiatore hai mai tentato?

Ho scritto qualche storia, sì. Mi hanno chiamato in Brasile per un’intervista con un giornalista [Thiago Gardinali, ndr] – che credevo fosse un topo di redazione e invece è un giornalista d’assalto, un reporter di guerra, fa anche il traduttore – che ha trovato una mia storia che avevo quasi dimenticato di aver scritto, “Zio Paperone e l’inversore gravitazionale”; ne ho scritta qualche altra, come quella che si ispirava al vecchio castello degli scozzesi, del clan dei McDuck [“Zio Paperone e il tesoro del fantasma… o viceversa”].

Qualcuna ne ho scritta. Poi siccome non mi trovavo benissimo e mi avevano fatto delle pulci sulle storie, insomma… C’è stato il periodo in cui modificavo le storie degli altri: ammiravano “Don Paperigo e il sogno di Zorro”, scritta da Nino Russo, in cui ho infilato delle cose mie perché la banda dei mariachi non era in sceneggiatura, mi sembrava simpatica, e ho fatto parlare tutti i personaggi come parlava Zorry Kid perché mi diverto a guardare anche altri disegnatori cercando di prendere il buono anche da non disneyani o realisti.

Io ho una certa biblioteca di fumetti molto scelti come Breccia, Moebius, Mignola, Sienkiewicz, gli italiani come Toppi, Battaglia, Jacovitti, i maestri. Quelli che sanno fare il fumetto, in cui ogni pagina è una lezione.

Idee di sceneggiature da fare, di cose che volevi fare e non hai fatto?

All’inizio ero partito dicendo di voler scrivere una storia per ogni personaggio, ma mi sono reso conto che è difficile farlo diventare divertente. Adesso magari ci proverò di nuovo. In questo prequel dei vichinghi mi sono divertito a metterci un paio di caratteri di Paperino presi da Barks: Paperino è anche coraggioso, la gag di Paperino che si butta sul kraken inseguito dagli orsi l’ho inserita io perché in sceneggiatura gli davano solo delle botte coi remi, che oltretutto sarebbe stato un errore.

Prima Catena parlava di come si fanno le storie e ricordo una cosa che mi ha detto lui stesso anni fa: la comicità Disney non è quella delle torte in faccia, ma delle situazioni che diventano buffe. Se guardiamo un cartone animato di Wyle E. Coyote aspettiamo solo che caschi nel burrone; Paperino se casca nel burrone si fa male, va all’ospedale, non è divertente. Non puoi far ridere perché si è fatto male. Anche quando ho scritto qualcosa Paperino non fa ridere perché si fa male o diventa una fisarmonica come Tom il gatto o Silvestro.

Fa ridere perché pretende di fare cose che non è capace di fare, un po’ “Io so tutto su come si guida una portaerei”. Poi lo sa anche fare perché è stato su Marte, su Venere, sottoterra, ha guidato rimorchiatori, è un pilota, astronauta, fa tutto. Però lo fa quando pretende troppo e allora fa come noi: ci sbagliamo, in modo buffo.

Progetti o cose alle quali stai lavorando, che farai?

Dunque, adesso devo fare una storia che è una bella sfida perché è una storia di Pico de Paperis che si risolve tutta in grandi discorsi. Buffa, però non ci sono le grandi avventure. Allora devo farla diventare bella pur non avendo i giganti, i robot o i marziani che arrivano. È tutto quanto un discorso di Pico. Sono contento perché Pico ha un disegno che si richiama molto ad Hubbard e a Carpi, quindi sarà una bella esercitazione sia nella vignettatura sia nelle espressioni e anche molto nella matita e nel pennello. Cerchiamo di migliorare un pochino alla volta anche in tutto questo.

Grazie mille, Francesco! È stato un piacere.

Figurati! Adesso io vedo di produrre qualcosa, perché a chiacchierare si fa presto. Però al tavolo da disegno mi diverto: non vado a faticare, vado a fare qualcosa che mi diverte… per fortuna!

Autore dell'articolo: Matteo Gumiero

Costretto a scrivere qualcosa in questo spazio, sono ingegnere, non amo scrivere ma in compenso mi piace leggere. Fumetti, soprattutto.