I Grandi Classici 60

31 GEN 2021
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Il numero di Natale 2020 è decisamente infarcito di avventure a tema. Ciò a partire dalla prima storia, con copertina dedicata, Zio Paperone e le buone azioni: la firmano Carlo Gentina ai testi e il più tirato a lucido dei Romano Scarpa ai disegni (per le chine dell’inchiostratore che lo accompagnerà essenzialmente fino all’ultimo, Lucio Michieli). Una storia di buoni sentimenti, forse un po’ troppo lineare come spesso accade in questi casi, ma i disegni trionfano per vivacità e dinamismo, regalandoci una di quelle perle grafiche che solo l’ultimo Scarpa fu in grado di confezionare.

Ed è invece un giovane Scarpa – siamo qui trent’anni prima, con le chine miracolose di Giorgio Cavazzano – ad essere riproposto in Paperino e i calendari omaggio, su testi dei fratelli Barosso. Spunto bislacco eppure verosimile sino alla banalità, realizzazione vulcanica e istrionica, tutti gli ingredienti tipici dei fratelli liguri. Non la loro prova più riuscita, forse, ma, come si suol dire, “ad avercene”. E i Barosso ritornano, quasi in fondo all’albo, con una storia di tutt’altro tono, appartenente al loro filone di thriller velocissimi (anche se non sempre altrettanto solidi… ma una simile seriosità non era nelle loro corde): Topolino e la torta aurifera, disegnata da Luciano Bottaro.

Sul fronte delle storie straniere troviamo una rapidissima storia di Dick Kinney e Al Hubbard (Paperoga in… lo spettacolo deve proprio continuare?), due pagine inesistenti con Archimede e l’ormai onnipresente Newton, una strana storia olandese su una antica maledizione natalizia (Paperino e il Natale in montagna), un escamotage paperoniano per scongiurare il pericolo di un Natale senza neve e senza slittino (Paperino e il Natale in grigio), e due brevissime: ma se una, l’autoconclusiva Qui Quo Qua e l’abete di Natale, appare decisamente dimenticabile, l’altra è una minuscola perla di due pagine ad opera di Bill Walsh, Topolino e Tip pozzo di scienza. Menzione, sempre sul fronte d’importazione, per un inconfondibile divertissement barksiano, Paperino e la gara del vischio, la cui conclusione deliziosa ricompensa il lettore di tante, eternamente uguali, riproposizioni successive dello stesso canovaccio.

Abuso d’ufficio

Ed eccoci, finalmente, alle due storie più lunghe dell’albo. Opera rispettivamente dei due autori fondativi e antitetici del fumetto Disney italiano del dopoguerra, Romano Scarpa e Guido Martina, entrambi nel pieno della loro maturità anagrafica (ma solo uno dei due in quella… inventiva), le due storie sono un chiaro paradigma della rotazione del gusto fumettistico nel volgere di esattamente trentasei anni.

La storia di Scarpa, I 7 Nani e il cristallo di Re Arbor, giocata su impensate reminiscenze della vicenda di Biancaneve, ha per unico pregio quello di stendere, nelle prime battute, un velo di promettente malinconia sulle condizioni estetiche e psicologiche della regina Grimilde. Ma il resto della storia non riesce, purtroppo, a sfuggire al campo semantico del manierismo, un vero e proprio gorgo per lo Scarpa dagli anni Settanta in poi, prima solo accennato, e da cui l’autore veneziano si riscatterà poi sempre meno frequentemente, fino ad un imprevisto colpo d’ala nell’ultimissima parte di carriera. Qui siamo nel pieno del consolidamento del nuovo standard delle storie scarpiane: altisonanti, venate nella messa in scena di alcuni personaggi-chiave di una inquietante e non sempre spiegabile dose di follia (qui a farne le spese è anzitutto il debuttante Re Arbor, ex-pretendente alla mano di Grimilde).

La follia negli occhi dei personaggi tardoscarpiani

La sceneggiatura alterna trionfo e nevrosi, dipanandosi per trentatré pagine di flussi e riflussi nelle alterne fortune del piano grimildesco. Felice particolare narrativo, l’uso del mutismo di Cucciolo, sebbene brevemente disatteso per una parte della storia (quando i due nani e i due soldati sono scambiati, tutti e quattro sono in grado di parlare…). Sui disegni, ovviamente, la musica cambia… ma paradossalmente, la perfezione grafica rende alla volatilità della sceneggiatura un servizio inquietante, facendo sposare il “caricamento” eccessivo dei passaggi narrativi ad uno scintillio dinamico ed espressivo decisamente surreale.

E Martina? Avvalendosi come può dei disegni molto rigidi di un Giulio Chierchini (sostituito in corsa da Luciano Bottaro nelle tavole finali) ancora nella prima fase della sua carriera, il Professore confeziona una trama che passa dal subdolo all’agghiacciante, ma con un umorismo, un tempismo, una coerenza e una vivacità che disarmano qualunque giudizio accigliato e rendono la storia godibilissima, almeno per chi scrive questo pezzo. La Banda Disney e l’espresso di Natale è la storia migliore del numero. È, daccapo, un umorismo tutto martiniano, irripetibile, nel senso che è necessario non ripeterlo per non tradire i personaggi, e soprattutto per non scadere nel ridicolo. Ma, così com’è, è perfetto. 

Ma c’è un altro ma.

A pagina 206 compare una vignetta molto famosa. Anche troppo, come diremo fra poco. Ne riproduciamo qui sotto la versione originale e quella pubblicata invece sull’albo di cui ci stiamo occupando: la motivazione del rimaneggiamento è evidente. Eppure. Negli ultimi tempi sui Grandi Classici ci si sta curando di mantenere l’aderenza al testo originale, e ne sono la prova, del resto, gli intatti riferimenti all’impiccagione in questa stessa storia; ma in generale, tutto quanto riguarda violenza (nei limiti disneyani tradizionali, anzi molto meno, visto che la morte, ospite d’onore di praticamente tutti i Classici d’animazione, nei fumetti non compare quasi mai), aggressività, trucchi immorali di uno speculatore… tutto questo è mantenuto. Fa eccezione il riferimento razziale. Sincero e condivisibile disgusto dinanzi a un’uscita siffatta? Effetto della recente, nuova spinta di sensibilizzazione? Timore costante della redazione, al punto da non prendersi il rischio nemmeno previo disclaimer a piè di pagina nell’indice? Senz’altro, e sono motivazioni perfettamente comprensibili.

Casacche a confronto

Ma c’è da sospettare che un quarto e fondamentale motivo sia ammissibile, ed è la sovraesposizione social di cui ormai godono quella specifica vignetta, quella specifica battuta, quelle risatacce che le numerosissime occorrenze di questo passaggio nel variegato mondo dell’out of context disneyano italiano ispirano, cercano, celebrano.

È comprensibile che l’accostamento “cromatico” della battuta in questione generi spiazzamento, forse sorriso, specie (anzi direi soprattutto) per disabitudine a quel linguaggio, e per comprensibile allergia al politically correct. Ma è veramente con la riproposizione virale di una vignetta di sessant’anni fa che si combatte l’eventuale ipocrisia di oggi? È con la messa alla berlina di un passaggio sceneggiato da un professore di lettere prestato al fumetto (e mai più restituito) che alimenteremo le nostre risate, in mancanza di adeguati stimoli che provengano dal presente? È destino che, ormai, per quel che concerne il fumetto italiano si debba ridere solo di scherno?

Forse sì, chissà. E forse in ogni caso chi scrive avrebbe posto un disclaimer prima della storia e lasciato la vignetta intatta. Ma che proprio quella vignetta, e non ad esempio quelle della tentata impiccagione, o quelle con i riferimenti al tabacco, sia stata presa di mira, ci faccia riflettere. E ci ricordi che l’integrità del testo originario passa tanto dalla genuinità delle ristampe quanto dal tenere a mente che quelle vignette, appunto, risiedono in seno al testo originale. E se l’out of context funziona – benissimo – una volta, la sovraesposizione invece va a farsi caricatura, desemantizzazione, noia.

Se veramente si vuole essere “postmoderni” si metta in campo la propria creatività e il proprio pensiero, senza trincerarsi dietro lo spirito dei tempi. Magari anche basandosi su una vignetta fuori contesto di sessant’anni fa, se vogliamo, ma aggiungendoci sempre qualcosa. La trasfigurazione, arma potentissima e provvidenziale, affranca e specifica. Schiacciarsi, viceversa, sulla ciclicità dell’inattuale ci consegna ad una stanchissima e nervosa monotonia.

Contesto: il 1960

Autore dell'articolo: Guglielmo Nocera

Oggi espatriato nel paese di Astérix, mi sono formato su I Grandi Classici Disney, che acquisto tuttora, e Topolino Story prima serie. Venero la scuola Disney classica, dagli ineguagliabili vertici come Carl Barks e Guido Martina ai suoi meandri più riposti come Attilio Mazzanti e Roberto Catalano (l'inventore della macchina talassaurigena). Dallo sconfinato affetto per le storie di Casty sin dagli esordi (quando lo confondevo con Giorgio Pezzin) deriva il mio antico nome d'arte, Dominatore delle Nuvole. Scarso fan della rete, resto però affezionato al mondo del Papersera, nella convinzione che la distinzione tra esegesi e nerdismo sia salutare e perseguibile. Attendo sempre con imperterrita fiducia la nomina di Andrea Fanton a senatore a vita.