Terminata la lettura de "La metamorfosi" di Kafka (dopo aver fra l'altro recuperato la fiaba di "Amore e Psiche", racconto presente nell'opera di Apuleio omonima a quella kafkiana), mi sento prevedere da un profondo senso d'angoscia: il disprezzo per quanto è diverso e anomalo non impregna soltanto la nostra società che, ipocritamente, piuttosto che ammettere la gioia suscitata dalla contemplazione di un futuro in cui tutti gli individui siano perfettamente omologati l'uno all'altro, sostiene la diversità culturale in nome del liberal-globalismo, ma anche la civiltà del Vecchio Mondo, nella civilissima Europa che si faceva portatrice di valori (la solidarietà, la famiglia) in teoria molto apprezzati e per questo largamente propugnati, ma che in pratica non trovavano riscontro con la realtà. Il racconto dello scrittore boemo è, infatti, a mio avviso definibile come una perfetta parabola dell'egoismo dell'essere umano, un racconto che mette in luce tutte le discrepanze e le incoerenze della civilità non soltanto a lui contemporanea, ma anche quella moderna: è emblematico che il protagonista Gregor sia elogiato dai familiari finché risulta essere utile loro per il lauto stipendio che si affatica a guadagnare per sostentarli, e che dopo che egli perde ogni utilità sul piano economico a seguito della metamorfosi si rallegrino dinanzi alla vista del suo corpo senza vita, che giace sullo sporco pavimento in cui è stato lasciato a marcire.