V. Thomas Pynchon
Non stupisce che l'opera prima di Thomas Pynchon sia stata un successo di critica e di pubblico nell'ormai lontano 1963; esemplare prodotto della corrente post-moderna, racchiude in se stesso la percezione in toto di un'epoca, in cui confluiscono passato, presente e futuro.
«[...] Dentro V., dentro lei, c'è molto di più di quanto nessuno abbia mai sospettato.
Il problema non è tanto sapere "chi" è, ma "che cosa". Che cos'è? Dio non voglia che io sia mai chiamato a fornire questa risposta, né in questa sede, né in qualsiasi rapporto ufficiale.[...] »
Così come dentro V. c'è qualcosa di più di quel che appare, così dentro al romanzo c'è un mondo di difficile comprensione raccontato con uno stile semplice e immediato, privo di virtuosismi letterari, ma con un lessico ricco e ricercato. I personaggi sono caratterizzati in modo attento e ognuno ha un ruolo fondamentale nella struttura del racconto, la quale può ad una lettura superficiale, apparire confusa e casuale, ma che, al contrario, è precisa e mai ridondate. In sintesi la trama è composta da due fili: il romanzo di Stecil che ricerca V. e il romanzo di Benny che cerca di sopravvivere con stenti e privazioni in un'America ormai priva di una guida e di valori, egli uomo inetto che si troverà a far parte della "banda dei morbosi" in cui ogni individuo vive di espedienti, felice di farlo. I due fili si intrecciano in un modo che appare causale, ma quasi prestabilito da una Storia che si riflette in se stessa ripetendosi in un ciclo infinito e immutabile. I personaggi secondari sono le fondamenta su cui si poggia tutto il romanzo, creano la base forte e resistente che sostiene il peso di concetti inespressi, ma tangibili. Attraverso di essi Pynchon urla a gran voce il suo pensiero, antirazzista contrario ad ogni forma di oppressione, utilizza avvenimenti storici, come la rivolta e lo sterminio degli Herero rappresentandoli come irreali, descrivendo la barbarie e l'inumanità della vicenda, producendo un senso di straniamento nel lettore che non comprende più ciò che è reale e ciò che non lo è, poiché l'autore si diverte con esso, lo confonde, lo pone di fronte alla sua ignoranza.
Proprio questa impertinenza è la forza del romanzo, perché non si limita a citare, in un nozionismo sterile, spiega, racconta , descrive, arricchendo il lettore, ma confondendolo, poiché se privo della cultura necessaria, dovrà documentarsi per comprendere qual è la verità e quale la finzione.
Un gioco di specchi in cui ogni personaggio si riflette nell'altro vedendo i propri difetti e rifuggendoli, ma senza riuscire a liberarsi di essi, in cui gli eventi non riescono a riconoscersi e a cambiare, l'olocausto degli Herero richiama quello degli ebrei, la rinoplastica di Ester, giovane dall'odiato naso adunco, si fa metafora della condizione del popolo ebraico e gli esempi potrebbero continuare senza soluzione di continuo per molto tempo.
Una bellissima immersione in un mondo fin troppo reale, in cui gli odori si sentono, l'oscurità e lo squallore si vedono, in cui niente è solo ciò che è rappresentato, ma si fa metafora di un concetto universale, in cui ogni tassello serve a comprendere la complessità di V., che è tutto ed è nulla, evanescente ed inutile come solo la vita sa esserlo. Forse alla fine V. non è altro che l'essenza dell'esistenza, quell'inseguire uno scopo che non esiste, quel cercare significati a ciò che significato non ha.
Opera cardine della corrente post moderna che non può mancare al bagaglio culturale di un lettore, ma che deve seguire, senza ombra di dubbio, un senso cronologico, deve essere posta al suo giusto posto nella disgregazione, tutta novecentesca, del romanzo classico, altrimenti appare vuota e incomprensibile.