Recensione Topolino 3452 Il
Topolino di questa settimana si apre con la prova di un autore da me molto amato:
Corrado Mastantuono. Sintetizzare in poche righe i suoi successi e l’impatto che la sua arte ha avuto sulla mia formazione di lettore è impossibile; mi limiterò a citare il suo personaggio più celebre, quel
Bum Bum Ghigno al cui sviluppo e alla cui maturazione Mastantuono ha lavorato incessantemente fino a svilupparne appieno l’essenza tragica e donchisciottesca, e che per me rappresenta quanto di meglio il fumetto Disney abbia prodotto negli ultimi venticinque anni.
La storia di apertura di
Topolino 3452, intitolata
Paperino, Bum Bum e il fratello manipolatore, è la migliore dimostrazione possibile della solidità del lavoro di
worldbuilding svolto da Mastantuono in questi anni: abbiamo Paperino, Archimede e Bum Bum al bar di Poldo Crocchetta, con l’immancabile tamarindo; abbiamo tutto il cast di personaggi “ghigneschi” come la cugina Mary Jane e il fratello Toddy; abbiamo
quell’ormai familiare misto di surrealtà, umorismo e malinconia che ne caratterizza il mondo.
Proprio Toddy, personaggio nato nell’ormai lontano 1997, è il protagonista e fulcro narrativo questa avventura. Trasformandolo in
una parodia del Barney Stinson della celebre serie televisiva How I Met Your Mother, Mastantuono porta lo spregiudicato fratello di Bum Bum a esprimere il proprio pieno potenziale narrativo. Grazie a lui, alle sue truffe gargantuesche – ho intravisto una citazione a Lorenzo Von Matterhorn e al Sommozzatore, celebri “tecniche” stinsoniane – un Bum Bum da tempo redento, steso sul letto in quell’ultima magnifica tavola, ci restituisce tutta la consapevolezza (e perché no, il dolore) di dover accettare ciò che non vorremmo accettare, di non poter mutare l’immutabile.
Al di là della storia in sé, perfetta nella sua costruzione ritmica, incalzante e a tratti quasi inquietante per l’assoluto cinismo di cui la figura di Toddy si ammanta, greve, è da notarsi come, dal
Topolino 2172 in cui entrambi hanno esordito, sia avvenuta
una sostanziale inversione morale fra i due personaggi, segno della cura e del rispetto per essi profusi dal loro creatore.
Il peso della conoscenza
L’albo prosegue con il secondo episodio di
Brigitta, Amelia e l’alleanza disastrosa,
ritorno in grande stile per l’artista vicentina Silvia Ziche. Una Amelia sempre più sopraffatta dai ladri, disposti a tutto per poter accedere alle stanze del deposito, chiede aiuto a Brigitta: l’eterna spasimante di Paperone dovrà volare sino al Vesuvio per recuperare un libro di incantesimi. Alla fine, la risoluzione del tutto viene affidata al geniale Archimede, che con una macchina del tempo improvvisata riuscirà a evitare alle due protagoniste le conseguenze della propria alleanza. Se la prima parte, pubblicata sul
Topolino della scorsa settimana, complice un disegno ispiratissimo e il ritmo indiavolato, risultava tra le cose più divertenti viste negli ultimi mesi,
in questo secondo tempo la narrazione si fa più fiacca e anche gli espedienti umoristici risultano meno a fuoco.
Dal fuoco passiamo all’acqua, con il terzo e ultimo episodio dell’adattamento, a cura di
Sergio Cabella e
Ivan Bigarella, del film
Kon-Tiki del 2012. Si tratta di
Il viaggio del Pippon-Tiki: Isole all’orizzonte, che narra dell’arrivo della zattera partita dal Perù alla terraferma, rappresentata dalle pericolosissime isole Rasoio-ahi, parodia di Raroia (atollo appartenente all’arcipelago delle Tuamotu) che nella realtà storica accolse gli stremati e incoscienti norvegesi al seguito di Thor Heyerdahl. Giunta alla propria conclusione, questa storia ci permette un bilancio finale.
In quanto adattamento,
Il viaggio del Pippon-Tiki richiama con estrema fedeltà gli eventi dell’opera di primo grado, abbandonando il travestimento burlesco tipico della parodia. Ma, trattandosi di un’opera Disney,
gli autori devono cercare di mediare fra la tremenda paurosità degli eventi storici e la leggerezza che si richiede a un’avventura del settimanale a fumetti. Il risultato è
uno strano monstrum dal ritmo altalenante.
Personalmente plaudo all’ambizione di Cabella, che grazie a questa storia porterà molti ragazzini a informarsi sulla vicenda storica,
e non posso che promuovere il disegno di Bigarella, altalenante ma con picchi davvero notevoli (impressionante la tavola “notturna”, nella quale le imbarcazioni sembrano veleggiare in cielo). Non sempre la narrazione decompressa e ripetitiva è riuscita a entusiasmarmi e ad avvincermi come avrei voluto; ammorbidendo (come era inevitabile) gli scontri fra i personaggi, i loro dubbi, le loro giustificate paure,
abbandonato quindi il grande elemento tensivo dell’opera originale, gli autori hanno insistito sulla poesia, sull’affiatamento, ma così facendo hanno rimosso buona parte del thrilling.
Cabella mette del suo nel personaggio di Pipperdahl, la cui figura mi fa pensare alle parole di Nabokov: «Partendo per i suoi viaggi, chissà, più che cercare qualcosa fuggiva da qualcosa, e poi al ritorno capiva che quel qualcosa era sempre con lui, dentro di lui, ineluttabilmente e senza fondo. Non so dare un nome al suo segreto, so soltanto che da lì veniva la sua particolare solitudine».
Notturno polinesiano Andando oltre la storia in sé, le sue caratteristiche tecniche,
trovo che ne Il viaggio del Pippon-Tiki le premesse e le conseguenze del viaggio non siano esplorate a sufficienza. Dei personaggi non sappiamo realmente nulla, così come nulla sappiamo della figura mitologica che ha dato il nome all’imbarcazione e
di cosa ha significato l’assurdo viaggio in zattera di balsa per la comunità scientifica dell’epoca.
I lettori vengono anche tenuti all’oscuro di un risvolto tragicomico, vale a dire che probabilmente la teoria di Heyerdahl era in realtà errata: secondo i dati genetici attualmente a nostra disposizione non furono, come lui intendeva dimostrare, gli antichi abitanti del Sud America a colonizzare la Polinesia; di questo il finale della storia non fa cenno alcuno, affidando l’eventuale approfondimento alle rubriche e alla volontà dei lettori. E trovo che sia un peccato.
A
Il viaggio del Pippon-Tiki segue l’ennesimo episodio senza brio della serie
Calisota social media.
I Bassotti e il colpo da 1000 like, di
Giorgio Simeoni,
Alessandro Sisti e
Federico Franzò, è uno di quei rari casi di storia che si scrive letteralmente da sola, come se qualcuno avesse inserito gli elementi “Bassotti”, “social network” e “rapina” in un generatore automatico di gag. Fin dalla prima pagina sappiamo che il Bassotto ossessionato da Instaduck farà arrestare i fratelli.
Non sarà arrivato il momento di chiudere questa serie ormai irredimibile? Ai posteri l’ardua eccetera eccetera.
Dopo la prova in minore dedicata ai social network, Sisti torna sul finale dell’albo con la conclusione della storia
steampunk Cronache degli antichi regni. Il quarto episodio, intitolato
Le chiavi dei clan, chiude (forse temporaneamente) le vicende di Paperhon, Topol e Paperhin, un esperimento interessante che ci permette di spendere qualche parola su questo misconosciuto sub-genere fantascientifico e sull’importanza della
lore nella costruzione di un mondo di fantasia.
Come molti sottogeneri fantascientifici, anche
lo steampunk nasce dall’accostamento di elementi formalmente separati: in questo caso il passato (in genere una ipotetica ucronia vittoriana) e la fantascienza, rappresentata da immense macchine a vapore, calcolatori meccanici in ferro e legno, cloni ante litteram. Le incursioni del mondo Disney in questo campo sono più uniche che rare, e l’esempio recente migliore che mi viene in mente è
Mickey e l’oceano perduto di Silvio Camboni e Denis-Pierre Filippi.
D’altronde bisogna capirlo, questo sottogenere sarà sempre meno popolare del suo cugino “magico”, il fantasy; furbescamente, le
Cronache degli antichi regni fondono tematiche e ambientazione steampunk con una estetica e un plot tipicamente fantasy, creando un ibrido che sulla carta avrebbe tutti gli elementi per farmi impazzire di gioia. Il risultato finale però mi ha lasciato abbastanza freddo.
Worldbuilding
Tra i quattro regni con bestiario annesso (in questo episodio incontriamo i simpatici Puffloni), i clan, la misteriosa conoscenza degli Antichi, il fuocolento,
il mondo immaginato da Bertani e Sisti è incredibilmente ricco, complesso e stratificato. Interessante è anche l’idea di legare il fulcro narrativo delle
Cronache al mondo stesso. Ciò che ho ravvisato è una certa povertà nella trama nuda e cruda, la successione degli avvenimenti, gli incontri fra i personaggi.
Lette tutte insieme, le
Cronache degli antichi regni mi paiono prive di una struttura narrativa convincente,
così concentrate sul worldbuilding da mettere il Viaggio dell’Eroe (che praticamente non c’è) in secondo piano. Ogni tensione fra i protagonisti è frutto di equivoci e ignoranza; la minaccia al mondo è sventata aprendo una valvola del gas. Manca il conflitto, manca una volizione che inneschi gli avvenimenti, una intelligenza che li conduca. Ci troviamo forse di fronte all’ennesima prima storia di una saga interminabile il cui succo verrà più in là, fra uno o due o tre anni?
La conclusione di questo episodio, con la pace fatta fra tutti e quattro i Regni,
non impedisce certo un seguito, anzi in qualche modo lo richiama. Forse abbiamo letto solo l’ennesima, decompressa introduzione, e a questo punto non so se augurarmelo (per vedere mettere in tavola un po’ di ciccia oltre al semplice mondo di Vastiplano, Arialta, Ondalya e Flamoch) o temerlo.
Sul versante disegni, pur innamorato del tratto di Mastantuono da tempi non sospetti, non posso che concedere la palma di disegnatore più efficace dell’albo al bravissimo
Francesco D’Ippolito, che si dà alla pazza gioia fra personaggi più o meno carpiani e
splash page di grande impatto scenografico. Come già in
Ducktopia,
l’autore ligure si mostra a proprio agio con la spettacolarità, le creature magiche e gli scorci mozzafiato. Non vedo l’ora di rivederlo all’opera in una storia che metta ancora una volta in luce tutto il suo talento.
Voto del recensore:
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