Recensione Topolino 3493 Cosa rende memorabile una storia a fumetti? E in particolare una storia a fumetti di
Topolino?
La domanda potrebbe sembrare campata in aria, anche perché ovviamente non c’è una ricetta particolarmente “giusta” o “efficace”, solo, al limite,
certune determinate combinazioni possono dare vita a storie indimenticabili.
La sceneggiatura e i disegni sono due facce di una medesima medaglia e una storia a fumetti non può e non deve prescindere né dall’aspetto grafico né da quello della scrittura:
solamente quando entrambe sono “di livello” si può parlare di ottima storia.
Il colore poi contribuisce senza dubbio al risultato finale: più è accurato, vitale, studiato più l’impressione che se ne deriva sarà intensificata.
Ma d’altra parte
ci devono essere anche altri elementi, a completamento: una trama in cui ci sia movimento, avvenimenti,
pathos, epicità, sentimenti (e non sentimentalismi), divertimento, gag, rimandi al passato, commozione, paura e un bel messaggio di fondo certamente risponderebbe a molte delle caratteristiche che ci si aspetta da una storia che deve perpetuarsi nella memoria di chi la legge.
Ed è per questi ed altri motivi che
non ci pentiamo di definire memorabile Topolino e il prigioniero di Verdemare.
Francesco Artibani,
Silvio Camboni e
Irene Fornari danno vita a
una storia eccezionale, che rende imperdibile questo numero del settimanale e che cercheremo di analizzare nelle prossime righe.
Partendo dai testi, la prima cosa che colpisce un lettore esperto (che è solo un modo per dire “un lettore che inizia ad avere un trentennio di letture di Topolino sul groppone) è sicuramente il fatto che la storia
rimandi esplicitamente a una avventura del periodo d’oro del fumetto Disney, per la precisione a
Topolino e la scarpa magica di
Bill Walsh e
Floyd Gottfredson (e
Bill Wright, in un pugno di strisce).
La variant cover firmata da Silvio Camboni
In questa storia, pubblicata per la prima volta tra il 22 giugno e il 28 ottobre del 1953 negli Stati Uniti,
Topolino faceva un viaggio in Irlanda per cercare di curare il singhiozzo e si trovava ad avere a che fare con il meraviglioso mondo dei folletti (o dei “piccoletti” come definiti nella vecchia traduzione italiana) e in particolare con un bizzoso tiranno,
Re Verdeverde, che aveva spodestato
il legittimo monarca Verdino e si divertiva a trasformare le persone in animali, piante e oggetti inanimati. Il nostro eroe dalle grandi orecchie, nel corso della storia, era riuscito a battere l’usurpatore in una gara di ballo e a restaurare il buon Verdino dopo una piccola “guerra civile” tanto improvvisa quanto poco animosa.
Dopo quasi settant’anni Artibani e Camboni, due autori fuoriclasse, ci riportano in quelle zone e in quelle atmosfere andando a costruirvi sopra
un intreccio complesso, studiato e articolato, tanto da non sfigurare per nulla rispetto a quello che aveva immaginato Walsh negli anni Cinquanta.
La storia procede su binari rigorosi, al contrario di quella da cui prende spunto che, già come accadeva nelle prime strisce (e come spesso accade per i lavori di Walsh), aveva una certa tendenza a deragliare rispetto al percorso delineato.
In questo caso l’avventura parte da uno spunto molto semplice: Verdino ha nuovamente bisogno di Topolino perché
il suo trono è stato ancora spodestato, stavolta da Lady Moira, una folletta tanto spietata e terribile quanto ambiziosa: non solo il mondo dei “piccoletti” è in pericolo, ma anche il nostro. Stavolta accompagnato da un Pippo in stato di grazia sarà compito di Mickey cercare di riportare la serenità nel mondo dei folletti e di nuovo re Verdino al potere.
A volte ci vuole anche una sana risata
L’abilità dello sceneggiatore è stata in particolare quella di
riuscire ad alternare in maniera magistrale l’uso dei vari registri presenti nella storia. Si passa dall’inquietudine (a tal proposito, azzeccatissima la scena della cuccia per introdurre il lettore al pericolo imminente), alla comicità, alla commozione.
E nessuna di queste soluzioni appare forzata o fa in modo che il tono della storia ne risulti svilito.
I colpi di scena non mancano e funzionano così bene da sorprendere il lettore dando, allo stesso tempo, respiro e imprevedibilità alla narrazione.
Le numerose gag e battute presenti sono funzionali alla vicenda, sono perfettamente inserite all’interno del contesto e
arricchiscono senza impoverire, seguendo
una tradizione che è l’essenza del fumetto Disney, partendo proprio da quel Gottfredson (e poi Walsh) che concludeva ogni striscia con un colpo di scena o una trovata divertente.
In ciò, più che nelle citazioni,
Topolino e il prigioniero di Verdemare è erede di quell’esperienza, partecipe di una epopea che continua ancor oggi.
Il sense of wonder generato da queste 50 tavole è amplificato dai disegni di un Silvio Camboni eccezionale, che torna su
Topolino corroborato dalle esperienze maturate in Francia con il fumetto non disneyano e, in particolare, con i due volumi editi da Glénat:
Mickey et l’océan perdu e
Mickey et la terre des anciens. La complessità delle ambientazioni e la sicurezza con la quale muove i personaggi arricchiscono la narrazione conferendo a
Topolino e il prigioniero di Verdemare uno status superiore.
Contribuisce alla bellezza della parte grafica di questa storia anche
la splendida colorazione di Irene Fornari che lo stesso Camboni ha supervisionato.
Le tonalità del blu che imperversano nelle scene notturne e sottilmente inquietanti dell’incipit della storia lasciano presto spazio al calore del sole e al verde dell’Irlanda, passando poi per il grigio che caratterizza l’ambientazione del reame di Lady Moira e per il rosso e il viola che indicano il calore acceso degli ambienti interni e delle scene ambientate nella fornace.
Qui ogni didascalia sarebbe superflua
La citazione necessaria è per
due splash page eccezionali: Topolino che fugge nel bosco a pagina 43 e il regno dei “piccoletti” finalmente tornato agli antichi splendori, prima della tirannia, rappresentato nella meravigliosa quadrupla di pagina 62.
Se proprio dobbiamo trovare un difetto lo riscontriamo nel
formato di Topolino che non risulta adatto a tavole così ricche di particolari, che
meriterebbero certamente una ristampa in un formato più consono alla loro bellezza e complessità.
Questa storia è anche
la dimostrazione di come non siano necessarie centinaia di tavole per raccontare una vicenda compiuta e complessa, di come la
narrazione decompressa tanto in auge al giorno d’oggi possa lasciare spazio a una racconto che prende tutto il tempo di cui ha bisogno senza allungare più del dovuto.
La storia è densa di avvenimenti eppure nulla sembra essere trattato troppo velocemente. Apprezzabile a tal proposito la scelta fatta anche stavolta dalla redazione di pubblicare entrambe le puntate nello stesso numero, essendo presente già una storia,
Topolinia contro,
spalmata su diversi numeri.
Quest’ultima è presente in chiusura, con
il secondo episodio dei tre previsti. Come preventivabile dalle premesse poste la scorsa settimana (e dal fatto di aver letto chi sono gli autori),
è Paperinik il protagonista di questo episodio.
Marco Gervasio e
Alex Bertani spingono forte sul loro progetto di
continuity inserendo riferimenti a storie passate e in particolare a
Grosso guaio a Paperopoli, che rappresenta il punto di partenza di un filone che si va delineando in cui Topolino collabora con il vendicatore mascherato di Paperopoli.
Lo spunto rimane interessante, ancorché non suoni completamente nuovo (dove l’esempio più eclatante della città che va contro il suo abitante più celebre è ovviamente
Topolino contro Topolino).
La dialettica tra i due protagonisti ha un ruolo centrale nella storia, come già nella precedente del filone, e il loro continuo punzecchiarsi può essere motivo di interesse, ma può stancare e soprattutto sviare dal focus che rimane lo scoprire come mai improvvisamente nessuno più sembra sopportare Topolino (e non perché è amico delle guardie). Rimane in ogni caso la curiosità di vedere come andrà a concludersi questa misteriosa vicenda.
Marco Mazzarello ai disegni alterna cose buone e espressioni meno convincenti.
C’è dello sporco a Paperopoli
Paperino e la tenzone della spatola d’oro, di
Pier Giuseppe Giunta e
Valerio Held, è una breve innocua, abbastanza classica nello svolgimento, che però non presenta spunti di particolare interesse. Held ritorna dopo qualche tempo con uno stile lievemente mutato che non sfigura ma che sembra necessitare ancora di un certo affinamento, pur presentando caratteri di miglioria rispetto al recente passato.
Chiudiamo la recensione con
l’altra storia eccellente di un albo imperdibile: torna con una storia lunga (dopo la breve muta con Bum Bum della scorsa settimana)
il Corrado Mastantuono autore completo, e lo fa con un nuovo appuntamento del suo ciclo sul Papersera.
Papersera News presenta: Zio Paperone e il sapone truccato si trovava sulla carta nella scomoda situazione di dover essere il prosieguo della lettura dopo un’ottima storia di apertura. Non è riuscita, in ogni caso clamorosamente, a non sfigurare. Mastantuono imbastisce
una trama vibrante e ricca di verve, con chiari intenti satirici.
Dietro l’apparente e discreta innocuità dei personaggi l’autore romano riesce a inserire
una serie di riferimenti al libero mercato, ai regimi di monopolio, alla corruzione e al malaffare, al proibizionismo e al contrabbando. Una “sporca faccenda”, in tutti i sensi. Per quanto riguarda i disegni, l’autore è sempre al suo, altissimo, livello. Un tratto classico, ironico, tanto più adatto quando è lui stesso a scrivere i testi delle storie, mantenendo sempre quell’atteggiamento di bonario e divertito distacco dalle cose.
5 stelle piene, dunque, per un numero di
Topolino che non può e non deve assolutamente essere lasciato in edicola.
Voto del recensore:
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