Recensione Topolino 3509 La storia vista da Topolino fu, con pochi dubbi, uno dei progetti più riusciti del
Topolino degli anni Duemila. Probabilmente, a livello di cicli di storie, il più unitario ed interessante insieme alle
Storie della Baia. Non solo: l’ultima storia del ciclo fu l’atto finale di
Giorgio Pezzin sul settimanale prima dei suoi due successivi ritorni.
Un bellissimo viaggio in epoche e scenari diversi, con una gestione del cast molto libera ed essenziale, reso memorabile dai disegni di
Paolo Mottura. Ed è, a parere di chi scrive, proprio a quei disegni che si ispira
Giuseppe Facciotto nella sua prova di queste settimane con
Il principe delle sabbie, saga scritta da
Francesco Vacca e dal direttore
Alex Bertani.
Un Facciotto straordinariamente ispirato prende elementi dalla lezione di Mottura (a partire dai personaggi principali) e dal tono della storia, volto all’intrico e alla serrata alternanza del punto di vista, per dare alla resa grafica un
quid davvero azzeccato.
E ciò non solo e non tanto per l’elemento architettonico e paesaggistico, come ci si aspetterebbe da una storia in costume, ma per il coinvolgimento di tutti i personaggi in una
recitazione convincente, dinamica, variegata: un esempio su tutti,
Macchia Nera, cui vengono regalati una inusuale e apprezzatissima espressività, un rapporto involontariamente conflittuale con i gatti e uno sfolgorante manto bianco che appare in piena luce solo alla fine dell’episodio. Tre pennellate inattese e riuscitissime sul cattivo più ambizioso e al contempo graziosamente alienato di questa storia.
Un’idea sinistra prende forma… ed espressione
Una storia che, nell’episodio di questa settimana, il secondo, a dire il vero fa poco altro che rimestare le carte. Un momento usualmente presente nelle storie a puntate, spesso proprio in questa posizione, e che
di fatto lascia la ribalta proprio a Macchia Nera e a Minni.
L’avventura di apertura del numero è invece
Zio Paperone e la palandrana rosa, di
Marco Bosco e
Giorgio Cavazzano. Un Cavazzano ottimo, perfettamente a suo agio nelle atmosfere del Klondike (una su tutte, l’inquadratura di Dawson dall’alto, che si aggiunge ad altre panoramiche parimenti suggestive ormai accumulatesi negli anni). Una trama, invece, centrata su uno spunto semplice e che forse avrebbe beneficiato di qualche elemento in più per completarsi.
È forse un’atmosfera un po’ d’altri tempi (e non per l’ambientazione) quella che si respira in questa storia, specie per il ruolo dei personaggi un po’ irrigidito (Paperina nel presente, ma soprattutto Violet nel passato). L’ennesimo riferimento a Doretta, seppure sobrio e fugace, trascina una volta di più giù dal piedistallo del mito un personaggio che era fatto per rimanerci quando uscì di scena accompagnato dal suo orso memorabile.
E sullo stesso spunto – una dolce dichiarazione difficile a uscire dall’alveo della timidezza – si basa la storia di
Pat e Carol McGreal e
Marco Rota,
Paperino sostituto postino, che modula il tema nel complicato mondo delle poste paperopolesi senza maggior mordente.
Una città ormai “di casa” nelle vicende disneyane
Più ispirata la storia di
Roberto Gagnor e
Nicola Tosolini,
I Bassotti e le leggi del furfantismo. La vena umoristica di Gagnor si altalena fra trovate degne dei giorni migliori e sconfortanti freddure spesso latineggianti.
Il canovaccio, semplice, porta i Bassotti a difendere l’onore delle loro ancestrali tradizioni ladresche ed
è forse il più ispirato del numero, tanto da dare l’impressione di sfruttare solo in parte le sue potenzialità comiche, complice anche la brevità della storia.
Infine,
Archimede e la complicità campagnola, che vede il ritorno di
Sergio Cabella sia a i testi che ai disegni, lascia un po’ di delusione per l’autore di
Sir Topleton e la sfida al grande bianco. La storia ripesca un principio già visto (la bontà-capestro dell’inventore paperopolese) e lo fa reagire con l’usuale
refrain di blanda scontrosità del barbuto misantropo che risponde al nome di Dinamite Bla. Altalenante l’ispirazione comica, che fa quel che può aggrappandosi a simpatici dettagli (“Nonno osare”) e ci accompagna ad un finale familiare con l’onore delle armi.
In conclusione, ci troviamo di fronte ad un numero in cui, a sorpresa,
sono le trame a fare un deciso passo indietro rispetto agli standard di originalità e compiutezza. Un risultato, forse, di un ricambio generazionale ancora in cantiere, tra autori rodati e fedeli al proprio linguaggio e nuove leve ancora in cerca di formule collaudate e riconoscibili.
Voto del recensore:
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