Riporto forse l'unico vero articolo ( scritto sinceramente dall'autore) apparso sui giornali, che invece fin da stamattina spacciano come articoli solo un copia/incolla dalla pagina di Bonelli su Wikipedia. Ancora una volta dimostrando la collocazione in Italia del Fumetto.
Ecco l'articolo:
Addio a Sergio Bonelli, re del fumetto
che ha fatto sognare tre generazioni
L'editore milanese si è spento all'età di 80 anni. Figlio dell'inventore di Tex, Bonelli ha saputo regalare personaggi-simbolo come Dylan Dog e Nathan Never. Formule editoriali innovative e poche tecnologie
Leggi la notizia e non ci puoi credere: Sergio Bonelli è morto. Aveva 80 anni e il fumetto italiano sulle spalle, un peso che portava con la naturalezza di uno che si divertiva ancora a creare nuovi personaggi, nuove formule, nuove avventure, pur presentandosi come il più conservatore e nostalgico dei protagonisti del fumetto. Non basterebbe un’enciclopedia per raccontare quanto la cultura italiana deve a questo milanese generoso, figlio d’arte con un cognome ingombrante, quello di Gianluigi Bonelli, l’inventore di Tex, senza velleità di protagonismo è diventato un operaio della creatività. Si è inventato serie che hanno fatto epoca, come Mister No e Zagor, rigorosamente con lo pseudonimo di Guido Nolitta perché temeva i confronti dei lettori tra i due Bonelli. Poi ha lasciato un po’ a malincuore le sceneggiature, ma non i viaggi nell’amata Amazzonia in cerca di ispirazione, per diventare editore a tempo pieno. E che editore: è riuscito in un’impresa all’apparenza incredibile, far sopravvivere il fumetto popolare in stile anni Sessanta all’invecchiamento dei suoi lettori.
All’apparenza, ma solo all’apparenza, Sergio era un editore preistorico: la Bonelli è l’unica casa editrice che non ha un vero sito internet, che sull’I-Pad non esiste, che non ha newsletter e neppure una e-mail per i lettori, nonostante anni di richieste è tuttora impossibile abbonarsi via posta alle testate della casa editrice. Perché Bonelli non voleva banalizzare il rapporto con il suo pubblico: rispondeva a tutte le lettere (quelle di carta) personalmente, si fermava delle mezz’ore, alle fiere del fumetto, a discutere con perfetti sconosciuti dell’angolatura di un colpo di pistola di Kit Carson o delle polemiche – per lui dolentissime – che i benpensanti scatenavano ogni volta che Tex si accendeva una libidinosa sigaretta dopo una sparatoria o che scazzottava un sicario cinese dandogli del “muso giallo”.
Eppure Bonelli ha saputo essere il più grande editore di tutti. Per due ragioni: ha dato a ogni generazione il suo sogno di carta e ha innovato le formule editoriali con il coraggio e la potenza di fuoco che nessuno, in Italia, ha mai potuto avere. Ai figli degli anni Settanta ha regalato Dylan Dog, che con Tiziano Sclavi ha raccontato i disagi del decennio edonista di Craxi e di Reagan, ai ragazzi cresciuti negli anni Novanta ha permesso di evadere con la fantascienza di Nathan Never, per i più seriosi c’è sempre stato Martin Mystere e negli anni Duemila ha sperimentato la formula delle miniserie. Supereroi a termine, cicli editoriali di 12-18 numeri in cui un personaggio racconta un universo, anticipando anche qui – con discrezione e senza celebrazioni – le logiche alla base del successo di Lost e di tutti gli ultimi serial americani. Basti ricordare Volto Nascosto, sugli italiani in Libia a cura di Gianfranco Manfredi, che già aveva avuto successo ibridando Tex e Dylan Dog nel western horror Magico Vento. O il primo fumetto pensato per conquistare il pubblico femminile, Julia, di Giancarlo Berardi.
Oggi il mondo del fumetto è in lutto, ma non solo quello. Tutti coloro che hanno tenuto in mano uno di quegli albetti quadrati, economici, curatissimi in tutti i dettagli (ci avete mai trovato un refuso?), che hanno allietato viaggi in treno, code alle poste o serate in poltrona, piangono la fine di una stagione della loro vita. Quella in cui Sergio Bonelli, con il suo look a metà tra il fazendero argentino e il possidente texano, si alzava ogni mattina chiedendosi come farli sognare.
ARTICOLO DI STEFANO FELTRI, da "Il Fatto Quotidiano.it"