Topolino 3396

25 DIC 2020
Voti del fascicolo: Recensore: Medio: (29 voti) Esegui il login per votare!

Chi scrive queste righe recensisce Topolino per la prima volta, con una certa soggezione dunque, e si trova a farlo su un numero di Natale semplicemente paradigmatico. La prima storia, firmata da Blasco Pisapia, Paperino e il Natale da saltare, si concede un’apertura piuttosto barksiana negli umori e nello stile, culminante in un sacrosanto momento di liberazione dalle ipocrisie natalizie da parte di Paperino e Paperone. Unire zio e nipote nella… radicalità è una finezza da parte di Pisapia: è verissimo, sono loro a portare tutto, sempre e comunque, alle estreme conseguenze, in due modi diversi. In ciò da una parte sbagliando – nella seconda parte della storia penseranno i loro più prosaici e savii parenti a far trovare loro il giusto mezzo -, ma dall’altra tenendo pur sempre viva una dimensione provvidenziale del microcosmo Disneyano: la libertà di essere, nel bene e nel male, irriducibili all’ineluttabilità ipocrita della consuetudine, sconfessata ad ogni passo dallo sberleffo della fantasia.

Fantasia che a dire il vero non la fa da padrona in questo numero di Natale, se ci si ferma agli spunti messi in campo. Ecco sfilare un’invenzione catastrofica di Newton, uno sfratto sospetto alla vigilia di Natale (ma il motivo non è tra i più sorprendenti sulle pagine del nostro settimanale di “nera” preferito…), e infine un bieco quanto fragile complotto a beneficio di una… ma non lo diciamo per non rubare suspense (?) alle ultime pagine.

Natale e i falò.

E allora, cosa rende questo albo, comunque, un buon numero di Natale, e per giunta – come si è detto – paradigmatico? Anzitutto, il polso con cui questi – pur non rivoluzionari – spunti sono trattati. Come Pisapia nella storia di apertura, Marco Nucci in Newton Pitagorico e l’aspirazione natalizia dà mostra di sapersi destreggiare perfettamente con battute ed espedienti sceneggiatorii solidi – non ultimo l’uso del refrain in rima di macchettiana memoria – per regalare ad un’idea semplice un abito brillante, coadiuvato perfettamente da uno Stefano Intini in perfetta sintonia. E se la storia successiva, Paperinik e il torrone Papergé di Marco Gervasio, non riscatta l’idea con una realizzazione particolarmente vivace (escluso il buffo minicolpo di scena sulle ultime battute), si apprezza l’evoluzione del tratto di un Nico Picone evidentemente attraversato ancora da spinte di “normalizzazione” frecceriana; un plauso in particolare all’impegno sull’elegante rigore architettonico degli innevati edifici paperopolesi.

Invero.

Si aggiunga che queste prime tre storie sono legate da una tacita cornice, fondendosi tutte nel convivio finale, e si otterrà un senso di unità, di “normalità” di un Natale su carta. Queste tre storie non sono, in fondo, nulla di così profondamente diverso da quanto sarebbe potuto uscire in un Natale degli anni Duemila, mutati gli autori e, eventualmente, la godibilità. Ma il clima è lo stesso. E forse è questo il primo grande punto fermo della direzione Bertani: la costruzione di una nuova normalità, dismessi gli strilli in copertina, le vette dei kolossal e delle parodie, le inconcludenze di uno stillicidio di miniserie di storie brevi una più manieristica dell’altra (si spera almeno), forse pian piano anche il sarcasmo televisivo di un umorismo che si è creduto – talvolta – più intelligente di quello che era. Un ordine, un’unità di intenti degni di tempi migliori per il settimanale. Si sente la mancanza, in questa normalità, dei picchi del passato?

Eccome se si sente. E quando il tentativo di fare qualcosa di più audace c’è, ahinoi, non sempre sembra andare davvero in porto. È il caso della saga di Mister Vertigo, che giunge in questi giorni al suo terzo capitolo, Topolino e le piccole verità del Natale. Marco Nucci avrebbe la stupenda capacità di fare quelle piccole scelte che trasformano una sceneggiatura in una sapida esperienza di lettura, ma sembra proprio che in questa saga non sia stato assistito da una altrettanto solida esperienza nella gestione delle trame topolinesche. Le atmosfere dei primi episodi di ogni capitolo (compreso questo) hanno talvolta richiamato persino lontani echi castyani; ma gli sviluppi e le conclusioni, pur in mezzo a piccoli tocchi di stile nella resa di personaggi e dialoghi, e nell’accostare Topolino a comprimari non scontati come il simpatico mago Arkadin, sono sempre naufragati nell’anonimato. E, a proposito di questo nuovo esponente del cast topolinese, fa piacere ricordare come ricalchi nel nome e nell’aspetto il personaggio interpretato da Orson Welles in un suo capolavoro del 1955. Una bella idea.

Forse non ha giovato instradare tutti e tre i capitoli sinora usciti sullo stesso canovaccio, che sfrutta il pur importantissimo tema della diffusione dell’informazione un po’ sempre con le stesse armi. È pur vero che fu imitatore di sé stesso, agli inizi, anche il Doppioscherzo di Casty, eppure il carisma del personaggio lo fece presto volare lontano dal gorgo della pretestuosità. Mister Vertigo è invece volutamente il grande assente delle sue storie, e forse paga troppo il prezzo della scelta, portata avanti per così tanto tempo.

Il senso dell’”Operazione Vertigo” rimane dunque ad oggi essenzialmente ignoto. Ma non c’è ragione di pensare che non si possa trattare di un lungo antipasto, e che l’eventuale prossimo episodio possa magari stupirci.

Spunti per un bel duo

Quel che appare chiaro è che, se il difetto della prova di Nucci è da rintracciarsi nella mancanza di esperienza, non potrà che migliorare; e che entrambi i disegnatori chiamati a lavorarci, Ottavio Panaro e Fabrizio Petrossi, non avevano probabilmente lo stile adatto per la resa ottimale del lavoro. Petrossi in particolare, che pure Oltralpe dà ottima mostra di sé con un tratto dettagliato ed istrionico, qui appare abbozzare le fattezze dei personaggi in maniera piuttosto semplice, e comprimere la (poca) azione in vignette rapide e un po’ prive di mordente.

Un peccato, infine, concludere senza uno sguardo alla copertina di Andrea Freccero, duplice, con una bella variant di Francesco d’Ippolito, e soprattutto alle rubriche: non tanto per un loro vero interesse – altro problema cronico della rivista da anni, il senso dell’apparato extrafumettistico – quanto per pura curiosità. Si va da un’intervista all’istrionico gruppo di “Casa Surace” a consigli cinematografici e di narrativa per i lettori disneyani: spicca l’uscita di Soul, il nuovo film Pixar che sembra riecheggiare un po’ il fortunato Coco nella mescolanza dell’elemento musicale e di quello surreale. E poi (ma dite, era necessario? Forse sì, dato l’albo di figurine di calciatori allegato) una infinita rassegna della stagione calcistica 2020. Da notare infine, piacevole consuetudine ormai, le “locandine” di alcune storie che appariranno in gennaio: una con Fantômius e una con Qui, Quo e Qua miniaturizzati.

In conclusione e nonostante tutto, Topolino 3396 è un numero di Natale più classico che mai, e al contempo sintomatico dei pregi e dei difetti della nuova direzione. Nella speranza che prima o poi si consolidino i primi e si risolvano i secondi… buone feste a tutti!

Autore dell'articolo: Guglielmo Nocera

Oggi espatriato nel paese di Astérix, mi sono formato su I Grandi Classici Disney, che acquisto tuttora, e Topolino Story prima serie. Venero la scuola Disney classica, dagli ineguagliabili vertici come Carl Barks e Guido Martina ai suoi meandri più riposti come Attilio Mazzanti e Roberto Catalano (l'inventore della macchina talassaurigena). Dallo sconfinato affetto per le storie di Casty sin dagli esordi (quando lo confondevo con Giorgio Pezzin) deriva il mio antico nome d'arte, Dominatore delle Nuvole. Scarso fan della rete, resto però affezionato al mondo del Papersera, nella convinzione che la distinzione tra esegesi e nerdismo sia salutare e perseguibile. Attendo sempre con imperterrita fiducia la nomina di Andrea Fanton a senatore a vita.