Recensione Topolino 3533“
Vedo avanzare Inquisizione e gesuiti e di nuovo prìncipi e conti.” Così Hegel, in una lettera scritta ad un amico all’apertura del Congresso di Vienna nel 1814, esprimeva
i suoi timori ciò che c’era stato di buono nelle conseguenze della Rivoluzione francese sparisse progressivamente sotto i colpi di maglio delle frange più genuinamente restauratrici delle cancellerie europee.
Il numero di questa settimana si presenta un po’ così, come un’istanza della più pura gestione Bertani colonizzato, o commissariato, dalle
ombre dell’eterno ritorno dell’uguale a se stesso. Ma andiamo con ordine, o meglio, a ritroso.
L’ultima storia dell’albo fa parte del ciclo
Blue Peaks Valley di
Corrado Mastantuono, in gran spolvero ai disegni e piuttosto “in palla” sui testi. La puntata di questa settimana,
Un barbiere, si impernia su una azzeccatissima trovata – Paperone che salva un autentico inciampo giornalistico con una trovata di vero e proprio
marketing – vagamente inficiata da una piccola forzatura nello sviluppo (forse è un po’ troppo che Paperone abbia predetto casualmente l’esatto contenuto delle azioni criminose del Perfido Estatisto? Un gioco di sponda più allusivo avrebbe assolto egualmente al compito).
Assomiglia alla lontana, questo microcosmo,
a quelle che furono le Storie della Baia. Certo i personaggi appaiono per il momento meno immediatamente memorabili di quelli, ma chissà che con il tempo, o magari con un secondo ciclo (potrà mancare?) qualcosa non si fissi meglio.
Il giovane Paperone di Mastantuono, va osservato,
è una versione particolarmente positiva e solare, in un certo senso nuova, nel panorama delle interpretazioni paperonesche; potrà sembrare meno connotata di quelle usuali, ma in fondo al netto di qualche forzatura funziona, e ben coniuga l’ispirazione extravagante di questa serie (di fatto un piccolo western fra le pagine di
Topolino) con il pegno pagato alla presenza di un personaggio canonico, seppure ringiovanito.
E appunto, la serie (che si chiude con l’apparizione di un proto-deposito in mezzo al Klondike) pone
un problema di integrazione fra ispirazione autoriale e tradizione. E non tanto in riferimento a un mai stabilito – sebbene auspicato dai fan più sfegatati dell’autore americano – canone donrosiano, ma
più in generale rispetto a delle linee profonde dell’agire e del pianificare propri del personaggio di Paperone. Riferimenti colti[/size][/i]
A parere di chi scrive, in un panorama di ispirazioni troncate e di condizioni asfittiche per la messa in scena di certi scenari e certi personaggi, la rottura di queste linee profonde, nello spazio di una breve serie,
non ha nulla di sacrilego. Ma il drizzarsi di antenne di una parte dei lettori è altrettanto legittimo e giustificato.
Giovanni De Feo e
Ottavio Panaro consegnano al lettore una breve stravaganza pippesca,
Pippo e lo gnaulone ombroso, di fatto una coppia di semi-relate epifanie in successione. E quale epifania scoprire che Pippo, nell’arte flessuosa e gommosa del disegnatore piemontese, è in grado di contorcersi a tal punto da abbracciarsi la schiena!
Ancor più straniante la storia di
Tito Faraci e
Francesco Guerrini (quando un tribunale si occuperà di capire
perché a questo grande disegnatore non siano quasi mai assegnate storie commisurate al talento sarà sempre troppo tardi),
Archimede voce fuori campo, specialmente per un’ostica tavola finale, in cui sorge addirittura il sospetto che ci sia stato qualche errore di trasposizione; e in cui la battuta finale di Archimede appare tra virgolette, come se l’inventore riportasse il discorso di qualcun altro.
Certo un errore in fase di lettering, che contribuisce al misticismo di quest’ultima tavola. La storia, comunque, veleggia su livelli migliori,
con un paio di battute reminescenti del grande talento faraciano, se non fosse per la sproporzione fra la sua brevità e la sostanziale lentezza con cui la comicità viene consegnata – quasi porta con soggezione – al lettore.
Ed eccoci alla seconda e ultima puntata de
I cieli di Farmtown, sequel a sua volta di
La solitudine del quadrifoglio, storia che a parere di chi scrive non era risultata particolarmente riuscita, impegnata com’era a “rendersi” e perdersi nel buffo trapianto di Mitteleuropa che è la cittadina di Farmtown.
Tutto vero[/size][/i]
A parere di chi scrive, in questa seconda storia più semplice, meno ambiziosa forse,
Marco Nucci centra meglio il bersaglio: che è di nuovo quello di
dare a Gastone una vita nuova, diversa, innegabilmente disarmonica con la sua personalità canonica. Accettato questo presupposto, la storia si libra in una commistione di sentimentalismo e comicità (affidata esclusivamente alla lingua raffinata ed efficace della imprevista zia Olivia Duck – forse un’ombra più o meno esplicita di Daphne Duck?) che, come sempre in questi casi, ha di fronte a sé solo due esiti: il ridicolo o l’elegia.
Ci sembra di poter dire che, proprio per la dimensione meno pomposa di questo secondo capitolo del Gastone nucciano, la mistura funzioni. Non solo: Gastone, architetto di un piano egoista quanto può esserlo un disegno di ispirazione sentimentale,
passa l’umiliazione della confessione e l’inattesa redenzione nella tutto sommato sobria purezza dell’affetto.
E ciò diversamente dal canone forse più in voga in casa Disney, che a questa dinamica avrebbe preferito portare fino in fondo lo schema di inganno e punizione tanto caro alla tradizione.
La Priscilla nucciana, dunque, nonostante possa faticare a conquistare il lettore, è forse la conquista migliore e più coraggiosa di questo ciclo.
Va però osservato che nulla di quanto sopra avrebbe funzionato davvero senza
i disegni di Stefano Zanchi. Il quale, capito a sua volta che non ci si poteva nascondere dietro una parvenza di classicità, regala a Priscilla, Gastone e Olivia quel suo
tipico tratto ventoso e sentimentale, capace però anche di ironia e sospensione della tensione, che abbiamo ormai imparato ad apprezzare.
La storia in breve
Notevole l’evoluzione, in termini di controllo e corposità della scena, rispetto al per certi versi apparentabile
melodramma di Reginella (quello sì pesantuccio e iperglicemico) di due anni fa.
Ma eccoci alla storia di apertura, il grande ritorno di
Wizards of Mickey sulle pagine di
Topolino. Che Wizards of Mickey sia sempre stata una serie dai contenuti un po’ stereotipati e meccanici, specie agli esordi, è innegabile. Dopodiché si è barcamenata tra piccole innocue storielle di esplorazione e
worldbuilding e mefitiche riprese di un canone plasticoso.
In questa storia,
Il seminatore di discordie, siamo nelle mani del bonelliano
Luca Barbieri e del veterano
Marco Palazzi (ormai una colonna della serie). La storia, ci spiace dirlo, appare un poco pretestuosa, priva di ogni spunto di originalità. Ogni passaggio della trama è il segmento di uno schema da gioco di ruolo di livello zero, e persino le battute appaiono spente e persino ripetitive.
I disegni oscillano fra barlumi evocativi (ricordiamo che Palazzi fu il regista grafico del “Topolino oscuro” – per quel che durò – del secondo ciclo di Wizards of Mickey) e scorci caricaturali intagliati in una specie di polistirolo fantasy.
Ecco dunque che il numero, nonostante il lavoro appassionato di un Mastantuono o di un Nucci, per così dire
“rimane nella palude”, come se si stesse chiedendo che direzione prendere. E, chissà, noi lettori con lui.
Voto del recensore:
2.5/5Per accedere alla pagina originale della recensione e mettere il tuo voto:
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