Ma "Il vulcano d'oro" non era un romanzo di Verne? Qual e' l'originale cui ti riferisci?
Buona notte! Intendevo "Il vulcano di Sandokan"; è che sto catalogando i libri che ho in casa e sono arrivato appunto a Verne...
Con "l'originale" intendevo solo Salgari padre, non un libro specifico. Correggo subito il messaggio.
Per quanto riguarda la questione età, forse non sono nella posizione giusta per dirlo, ma ad otto anni dalla prima lettura il mio affetto per l'autore rimane immutato. In particolare, mentre pochissimi romanzi "singoli" di Salgari mi sono veramente piaciuti (La favorita del Mahdi e Il Re della Montagna non li ho proprio mandati giù), ho una vera venerazione per i cicli (Malesia, Caraibi e Bermude; un po' meno quello del Far-West, che non ho nemmeno finito).
La grandezza di Salgari, a mio personalissimo parere, è nella "sostanzialità" della narrazione. Mi spiego: Alessandro Manzoni nella sua riflessione sul romanzo storico giunge alla sofferta conclusione che "profittare della storia senza farle concorrenza" è nella sostanza profonda un'illusione. (Illusione di cui "I promessi sposi" è la concretizzazione sublime, si potrebbe obiettare, ma la
vis autocritica dell'Autore è nota...) Dopo di lui (in generale, dopo la generazione romantica), dunque, il processo asintotico di avvicinamento del "vero storico" da parte della letteratura si blocca in gran parte, e l'indagine della condizione umana tramite le lettere cerca altri strumenti. Pochi cercheranno di entrare nella mente di Napoleone nei giorni di Sant'Elena, o di Adelchi nell'assedio di Pavia, per immaginarne pensieri, intenzioni e motivazioni; ci si affiderà invece al metodo scientifico del naturalismo francese, o agli studi psicologici, o al "sentire l'uomo", se mi si passa il termine, di certo decadentismo.
Insomma, il "realismo storico-filosofico" cede il passo ad un realismo più psicologico, intimo, senza le ambizioni universalistiche della concezione classica e romantica. Ma anche questa stagione conosce la sua crisi (un esempio su tutti: Verga che abbandona il suo "Ciclo dei vinti"), e altre strade si propongono, da quella che con Svevo prelude alla collaborazione con la psicanalisi che sarà tipica di tanto Novecento a quella che con Pirandello denuncia il problema di fondo della letteratura e avanza implacabile e sublime fra le rovine dell'edificio cui ha dato il colpo di grazia.
Insomma, muore il "realismo diretto", quello che cerca di penetrare nel cuore e nella mente dei personaggi, e la rappresentazione del vero passa per strade sempre più complesse, problematiche, allusive, rinnnovatamente allegoriche (a seicento anni dalla
Commedia).
Ebbene, Salgari, con un candore eccezionale ed una inconsapevolezza indiscutibile, ignora il problema: la sua avventura non indulge a nessuna tentazione di realismo, ed evita così lo scacco matto in cui ogni altro romanziere d'avventura era caduto e cadrà ancora, cioè l'incompatibilità fra l'invenzione assoluta e la genuinità delle passioni, la veridicità della recitazione dei personaggi, delle dinamiche psicologiche, etc.
I sentimenti, le passioni in Salgari sono funzioni della narrazione. Per capirci, se Constance Bonacieux muore
alla fine dei Tre Moschettieri, dando luogo ad un meraviglioso ed umanissimo finale, Marianna Guillonk muore
prima de I pirati della Malesia, facendo scattare nuovamente la molla dell'avventura e riportando Sandokan sul mare, più tremendo che mai, narrativamente libero dalla pace coniugale. Ecco che il problema del realismo è evitato.
Ma -ci si potrebbe legittimamente chiedere- cosa resta allora? La risposta è: la narrazione pura. Nessun autore quanto Salgari, proprio per questa sua libertà meravigliosa, ha potuto narrare nel senso più fantastico del termine: il brio, la sobrietà, l'umorismo (sottovalutatissimo), le efficacissime descrizioni dei multiformi animali esotici che non sono mai lì per caso... quando leggo Salgari "respiro dal cervello", ovvero vedo aprirsi spazi immensi che
solo la letteratura è in grado di creare. E non dimentichiamo, nonostante tutto, che anche Salgari, pur venendo da Marte, cioè senza cercare davvero la coerenza psicologica e simili, ehm, "facezie", sa farci commuovere: ricordiamo l'ultima frase de Il Corsaro Nero:
"Guarda lassù! Il Corsaro piange!".
Salgari, a mio parere, non è Letteratura nel senso più alto e completo; ma ne è, in un certo senso, cioè a volerlo
reinterpretare (lungi da me attribuirgli una progettualità che non era nella sua dimensione intellettuale) alla base. La capacità della nuova letteratura di non appiattirsi su un realismo piatto e frustrato, rimestando sempre gli stessi temi che non riescono a decollare in qualcosa di realmente profondo, deve passare per il
recupero della Fantasia; quella fantasia di cui tanto ha parlato (non sempre compreso) Italo Calvino: è questo, a mio modestissimo parere, un grande strumento per tornare alla grande Letteratura di Pirandello e Calvino e gli altri Grandi del secolo scorso. L'eredità di Salgari è il candore con cui rinuncia ad ogni compromesso con la realtà, ad ogni debito con un realismo illusorio, nel peggiore dei casi sentimentale e mortifero; ed è un'eredità da raccogliere, per poi alla realtà tornarci con nuovi e più versatili strumenti. Pensate -e qui chiudo davvero- pensate a Garcìa Marquez: non c'è libro più assurdo, forse, dell'
Autunno del Patriarca. Ma quanto a grandezza...
Ehm... scusate lo sproloquio...