[size=14]GUIDO MARTINA - XXV[/size]
Cari amici,
venticinque anni fa ci lasciava Guido Martina. Le ricorrenze comandate non sono mai interessanti, tanto meno questa di un autore che dell'etichetta e dell'ufficialità se n'è sempre importato ben poco. Però è un'occasione come un'altra per promuovere una piccola iniziativa, alla quale potrà partecipare chi vorrà quando vorrà (nel contesto di un Anno Martiniano 6/5/2016-6/5/2017) con un ciclo di interventi qui sul forum. Interventi che vorrebbero essere di vario tipo, un po' sulla scia del Romano Scarpa forever, ma non necessariamente incentrati sulle storie. Ad ogni modo non sentitevi in soggezione, perché non si tratta di interventi da raccogliere e diffondere, ma solo di piccoli ritratti personali di una storia, una caratteristica di stile, un personaggio.
Nel frattempo, a mo' di introduzione, provo un po' a rompere il ghiaccio.
[size=12]1. Parola, forma e contenuto[/size]
Trovo molto fecondo il confronto tra le varie fasi (due le più marcatamente distinte) della produzione martiniana; fasi fra loro omogenee per certi aspetti, ma differenti in altri.
Al centro della scrittura di Guido Martina ci sono, fra gli altri,
la parola e gli
equilibri fra i caratteri. Di più: gli equilibri fra i caratteri (forti, deboli, primeggianti, di contorno, solari, viziati) sono di fatto
sanciti dalla parola, ovvero dalla forza del discorso. Esempio classico la loquela paperoniana, che sommerge tutto e tutti, dal più sintetico degli "Zut!" alla più melodrammatica delle autoflagellazioni. Tuttavia vi sono modi e modi: nella fase dei pieni e tardi anni Cinquanta, ad esempio, l'organizzazione di alcune storie sembra passare per una dinamicità locale che però realizza una staticità globale, nel senso che la trama generale riflette rapporti fra i personaggi (e tipologie d'azione) che vanno verso un modello, una canonicità, quasi a
creare il
tipo dell'avventura Disney made in Italy. Ecco quindi che, diversamente dalla lunga e ricca fase di sperimentazioni il cui frutto più sregolato è forse
Topolino nella valle dell'incanto (e quello più celebre l'
Inferno di Topolino, che rappresenta un
unicum del fumetto italiano) la peculiarità della narrazione non è più monopolizzata dalla melodia (le trame fantasiose), ma si centra parallelamente nel ritmo e nella strumentazione (la parola). Ecco che si passa dai
Tappoatlantici e dai meravigliosi
Grilli atomici all'
Anno bisestile, all'
Acqua astemica, ai
Pensieri negativi. Un lavoro di regolamentazione e fortificazione delle forme che prescinde del tutto, è doveroso dirlo, da quelli che sarebbero diventati gli strumenti affilatissimi del fumetto internazionale, ispirati anche ai disneyani Barks e Gottfredson, e che i grandi autori come Alan Moore (e perché no Don Rosa) avrebbero portato a livelli esemplari tanto da ispirare moltissimi autori, anche italiani come Tito Faraci (è il caso di Moore). La via seguita da Martina è assolutamente personale; dal punto di vista moderno si può dire che
la tecnica in Martina non esiste. Ma in mancanza di quei mezzi, vuoi per cultura vuoi per scarso interessamento, il Professore confeziona una via tutta sua, basata in parte come si è detto sulla forma interna del dialogo e sull'interazione di questo con l'azione, una scelta che permette all'autore di sviluppare in verticale sia l'
umorismo (perno indiscutibile della sua arte in tutte le sue fasi) sia i rapporti fra i personaggi, primi fra tutti quello fra Topolino e Pippo (brontolone e paterno - più che fraterno - il primo, svaporato, imprevedibile e testardo il secondo, ma incapaci di sussistere separatamente) e quello interno alla famiglia dei Paperi (tappa irrinunciabile
Paperino e il conte di Montecristo con il suo finale così semplice eppure indimenticabile).
Ma attenzione: Guido Martina non cessa di dar libero corso alla fantasia nella maniera incontrollata di un tempo, però in storie speciali come
Paperino Girandola o il favoloso
Paperino di Münchhausen, o il più tardo (e già diverso)
Paperin Fracassa. In queste storie l'irrazionale diventa assurdo, il giustapposto diviene sorpresa: insomma, fateci caso, il cortocircuito mentale diventa sempre più intenzionale e commisurato allo scopo della storia. Tant'è che
Paperino di Münchhausen, confrontato con i
Tappoatlantici, scorre via che è una bellezza.
La vitalità di questi risultati, peraltro, è in grado man mano di sostenere, da un lato, la rappresentazione morale che l'Autore va ad esempio componendo nelle sue storie di Paperi, e dall'altro, splendido
pendant a questa, quella meravigliosa
spensieratezza, scanzonata più che confortante, che pervade l'opera di Martina (specie quella matura), tanto più godibile e sottile quanto parallela ad una visione non semplicistica e rassicurante dell'universo Disney.
Tornando al discorso, parlerei, mutuando dalla fisica, della
parola come consolidazione. Mi spiego. Romano Scarpa, che ad esempio non sceglierà mai uno stile lessicale fortemente compromettente (senza che ciò gli impedisca di lasciare espressioni indelebili come "rhafare l'anello W"), si può dire che con lo stile ci nasce. La leggerezza cristallina della sua esposizione, dai
Gamberi in salmì alle
Sorgenti mongole, è creata una volta per tutte, e si interromperà purtroppo per la decisione dello stesso Autore di concentrarsi sul disegno, salvo poi essere ripresa in futuro ma contaminata da nuove esigenze che la renderanno sensibilmente diversa. Insomma il problema della parola in Scarpa è felicemente assente dall'inizio: la parola è funzionale al contenuto, e lo serve con una semplicità inintaccabile che è difficile ritrovare altrove. Viceversa Guido Martina giunge ad una forma, che si farà sempre più solida, con quello che appare come un lavoro progressivo, magari non del tutto studiato a tavolino (anzi): il problema della parola è presente e affrontato, complice la vicinanza (già di formazione) del Professore alla letteratura italiana, una letteratura in cui la parola è
al centro della questione letteraria in una maniera che all'estero risulta talvolta difficilmente comprensibile; la necessità di affrontare il problema forma-contenuto in maniera inventiva, esponendosi anche al rischio dell'innecessario, dell'artificioso, del peregrino, del manieristico (rischio, se devo dire la verità, più sfiorato che toccato, ma talvolta toccato, bisogna dirlo), non è solo martiniana. È anche - mai dimenticarlo - ciminiana; solo che Rodolfo Cimino realizza più presto una fusione tra forma e contenuto che è già perfetta (
Zio Paperone e il ricupero... armato: c'è bisogno d'altro?): il magma formale ciminiano, insomma, si cristallizza e si ordina più lentamente di quello scarpiano (come detto, già cristallo da subito), acquisendo in un certo senso più minerale, più poesia, più ricchezza, e meno velocemente di quello martiniano, che passa per una trasformazione ancora più lunga e una cristallizzazione che avverrà solo in tappe: la prima alla fine dei Cinquanta, e la seconda solo nei Settanta, nelle storie poi affidate a Giorgio Cavazzano, a Romano Scarpa e Giovan Battista Carpi nella loro piena maturità, e soprattutto a Massimo De Vita. (Di queste ultime ho già parlato
qui, se vi va di dare un'occhiata, e magari se ne parlerà ancora!)
E poi c'è Carlo Chendi, il grande taciuto del primo Disney made in Italy, l'unico forse in cui il magma suddetto, invece di cristallizzarsi, resta sempre a fuoco lento, nelle cogitazioni paperiniane, paperoniane o pippesche, evolvendo con i tempi, appianandosi anche, senza acquisire una connotazione leonina come in Martina o Cimino, e senza dall'altra parte placarsi nella rassicurante forma-canone progressivamente affermatasi a partire dagli anni Ottanta. E non bisogna sottovalutare in quest'ottica il processo realizzato da Giorgio Pezzin, forse il più vicino a Martina nella ricerca di una forma vulcanica ma al contempo sempre più elegante, dal "Dàgli che li prendiamo!" fino alla prosa riflessiva de
La Storia vista da Topolino.
Ma ho già detto troppo, come sempre, e lascio spazio a tutti coloro che vorranno contribuire all'analisi, in qualunque momento.
Nel frattempo, al di là di ogni speculazione più o meno profonda (e malata), è quanto meno d'obbligo un...
[size=14]
Grazie di tutto, Professore![/size]
della fantasia, dello stile, della grinta, dell'umorismo,
delle tante parole imparate,
e della disgustosa ostentazione di plutocratica sicumera.