Topolino e Bip Bip alle sorgenti mongole
Quando ero una bambina dei primi anni delle elementari non mancavo mai l’appuntamento pomeridiano della merenda con pane, quello che c’era in casa e Classici Disney, e l’andare bene a scuola mi aveva garantito ogni anno un bell’abbonamento a Topolino fino alle scuole medie.
Quando ripenso a quel periodo vengo pervasa da una sensazione di calore, come quella che senti d’inverno quando ti piazzi davanti ad un camino (o un termosifone nel mio caso), mentre fuori fa brutto e freddo, e mi torna anche alla memoria un particolare episodio.
La testata della storia pubblicata per la prima volta su Topolino 285 del maggio 1961.
Fra tutte le storie che leggevo ce n’erano alcune che preferivo assolutamente rispetto alle altre, e la maggior parte di loro erano quelle disegnate da “quel” Walt Disney che aveva un tratto molto preciso, i personaggi sembravano veri e le sue avventure mi appassionavano così tanto che quasi mi sembrava di vedere un film.
Anche se non conoscevo il nome di chi faceva quei disegni sapevo sempre riconoscere il suo stile, e ogni mercoledì quando arrivava Topolino, lo sfogliavo tutto per cercare se c’era una sua storia e poi iniziavo a leggerlo proprio da lì.
“Quel” Walt Disney che amavo tanto che disegnava avventure come “Zio Paperone e lo Scozzese volante“, “Paperino e i gamberi in salmì“, “Topolino e l’ultraghiaccio“, “Pippo e i parastinchi di Olympia“, si chiamava in realtà Romano Scarpa ed era Italiano come me, ma all’epoca non era dato avere queste informazioni.
Mi piaceva talmente tanto leggere i suoi fumetti che avrei dato non so cosa per avere in un libro tutte le sue storie, ma siccome non sono mai stata una persona paziente e visto che il libro non usciva, decisi di farmelo da sola.
Strappai tutte le pagine dei fumetti disegnati da lui che riuscii a trovare e le incollai le une alle altre, consumando un bel po’ di colla Pritt, poi gli misi una bella copertina disegnata da me colorata con i pennarelli.
Però! Che bello che era il mio libro! E guai a toccarlo! Me lo mi portavo sempre dietro per poterlo leggere quando non ero a casa.
Purtroppo di quel periodo oltre ai ricordi non mi è rimasto niente, né il libro, né i cadaveri dei Topolino e i Classici che ho sacrificato per la mia grande opera, in compenso scuoto la testa e sorrido.
La copertina di “Top 1959”, raccolta di tre numeri “d’epoca” del Topolino settimanale, tra i quali i due contenenti la storia della 2Sorgenti Mongole”.
Circa venticinque anni più tardi, dopo un lunghissimo periodo di digiuno fumettistico, un giorno in edicola mi faccio tentare da Top 1959, sulla cui copertina vedo un Topolino dalle caratteristiche conosciute.
Mi porto a casa il volume, lo accantono temporaneamente e aspetto che arrivi il pomeriggio per metterci le mani sopra, così dopo aver messo a nanna la mia creatura di due annetti scarsi, mi piazzo sul divano e vado alla ricerca dei tanto amati disegni.
Eccola lì la storia, “Topolino e Bip Bip alle Sorgenti Mongole“, mai letta, per cui un’ulteriore sorpresa ad alzare l’adrenalina già alle stelle. Ma dov’è finito l’aplomb di una donna di 35 anni? E che ne so? Forse a mollo con i piatti che ho lasciato da lavare…
L’introduzione è già avvincente perché tratta un tema a me caro, i nativi americani, e questa storia promette di affrontare il mistero delle loro origini.
Ovviamente le mie aspettative non vengono disattese, “Topolino e Bip Bip alle Sorgenti Mongole” è una storia intelligente, saggiamente costruita, con riferimenti storici attendibili e personaggi affascinanti e accattivanti.
La vicenda narra della caccia ad un tesoro nascosto dagli antichi abitanti dell’America del Nord che, se ritrovato, testimonierebbe la colonizzazione del continente da parte delle popolazioni asiatiche che nella preistoria passarono attraverso lo stretto di Bering, che durante l’era glaciale emergeva dalle acque formando un ponte di terra.
L’avventura inizia con il ritrovamento da parte di Topolino e Atomino Bip Bip di un’antichissima fiasca in pelle contenente 11 semi di sambuco che, come ricostruisce il consulente di turno l’antiquario Nataniele Ragnatele, dovrebbero servire ad aprire l’ingresso di una caverna dentro la quale è celato il tesoro, e delle vicissitudini che i tre protagonisti devono affrontare dopo il furto della fiasca da parte del suo millenario guardiano, l’antico Hon-Ki-Ton.
Hon-Ki-Ton riceve la preziosa fiasca con i semi di sambuco.
La storia non lesina momenti divertenti come quando, in principio, Topolino vuole mettere in ordine il giardino, ma si mette a tagliare l’erba con le forbici ed è pure tutto soddisfatto del risultato, poi arriva Orazio che decide di prestare il proprio aiuto cercando di eliminare una vecchia quercia rinsecchita.
Bardato come un dentista con tanto di maxi siringa per ammorbidire il terreno, la estirpa come un molare con l’aiuto di una benna, ma non prima di aver semidistrutto la casa del nostro protagonista.
Memorabile l’inseguimento di Hon-Ki-Ton, che si è impossessato della fiasca mentre Topolino, Atomino e Nataniele Ragnatele stanno disquisendo del misterioso oggetto nel negozio di antiquariato di quest’ultimo, che inizia con la distruzione dell’antica scala d’accesso al locale (appartenente all’ammiraglia di Nelson), impedendo così ai protagonisti di raggiungere immediatamente il fuggitivo, e dei successivi tentativi di uscire dal negozio usando alcune antiche funi fenicie, che si disgregano, e alcuni preziosi vasi di Samo accatastati, che si disintegrano, per finire con l’esclamazione dell’antiquario: “Al diavolo tutte le anticaglie!!!“.
Per la cronaca i tre inseguitori riusciranno a liberarsi usando una catapulta del XV secolo.
Mi piace quest’ironia sottile ed elegante, sempre presente nelle storie di Romano Scarpa e in questa in modo particolare, anche nel pathos più avvincente si trova qualcosa che ti fa ridere, senza per quello interrompere il filo dell’avventura.
L’ambientazione si articola fra Topolinia e l’Alaska dove, secondo la mappa disegnata sulla fiasca, il tanto ambito tesoro sarebbe nascosto in una caverna nei pressi di una grande cascata.
Non manca neanche una citazione ai classici della letteratura, in questo caso l’omaggio va a Herman Melville, in occasione dell’incontro dei tre protagonisti con il comandante di un peschereccio, il capitano Mac Hab che, bocciato agli esami di ammissione alla caccia ai cetacei, deve accontentarsi di perseguitare Boby Dick, un’aringa bianca particolarmente beffarda, e in ultimo salvatore dei nostri personaggi.
L’invasato capitano Mac Hab alla caccia della “sardina bianca”.
Geniale la ricostruzione dell’antico paese di minatori dove Topolino, Atomino e Ragnatele scoprono che i residenti sono ormai miliardari perché nella zona è stato scoperto l’uranio, e la polvere d’oro serve al barista per sciacquare le bottiglie.
C’è poi una vignetta della storia che mi lascia incantata ogni volta che la leggo, tanto in alcune occasioni i disegni di Romano Scarpa mi sembrano più dei fotogrammi di un film piuttosto che dei fumetti, ed è quella di quando i protagonisti giungono infine alle sorgenti mongole, infatti puntualmente mi sfugge il dialogo contenuto nella nuvoletta perché il rumore della cascata mi assorda.
Con grande stile il Maestro chiude l’avventura dando la possibilità agli esploratori di ottenere da Hon-Ki-Ton le spiegazioni necessarie a ricostruire le origini dei nativi, e anche quella di poter vedere l’agognato tesoro prima che egli raggiunga le celesti praterie ma, come è giusto che sia, non potranno portare con loro alcun elemento, dovranno accontentarsi solamente di un “meraviglioso stuzzicadenti mongolo” quale prova della loro entusiasmante esperienza.
A Romano Scarpa vorrei esprimere tutta la mia gratitudine per averci regalato delle avventure così appassionanti che, scritte e disegnate con il suo acume, la sua passione e la sua professionalità, hanno trasmesso a noi bambini di ieri la voglia di curiosare, di imparare e soprattutto ci hanno insegnato a pensare.
21 GIU 2015