Topolino 3168

11 AGO 2016
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Dopo appena due settimane torniamo ancora a parlare di remake, prequel e simili. Allora l'occasione era stata una sorta di retcon sul primo incontro tra Topolino ed Eta Beta, stavolta l'oggetto del contendere è un vero e proprio remake e in particolare della classica storia “Topolino e la banda dei piombatori”. Come detto, il pubblico è abbastanza diviso, tuttavia una delle voci più ascoltate dell'entertainment italiano (ovvero Recchioni) si è schierato apertamente a favore su Facebook, citando due classici di Carpenter. E' un intervento interessante perchè prende due esempi magistrali di remake: “Distretto 13” è una rilettura di “Un dollaro d'onore”, dove all'ambientazione western si sostituisce quella metropolitana. “La cosa” non è nemmeno un remake de “La cosa di un altro mondo” ma la trasposizione del racconto a cui si era ispirato anche Hawks. Ma non è tutto qui ovviamente, sono due film in cui il regista rielabora in maniera autonoma le due vicende, le fa proprie, introduce elementi e tematiche nuove. I risultati sono due film totalmente carpenteriani, che dei precedenti mantengono a mala pena l'intreccio globale, ma le atmosfere, i personaggi, tutto è stato filtrato attraverso la visione personale del regista.

Bene, tutto ciò è esattamente quello che non si trova in “Topolino e la banda dei cablatori”, storia di apertura del numero attualmente nelle edicole. Faraci si limita a una stanca riscrittura dell'originale, senza guizzi, senza mordente. E' come uno che, quasi digiuno di disegno, prova a ricalcare in trasparenza un Caravaggio: alla fine quello che esce assomiglia all'originale, ma si vede il segno tremante, si vedono le imprecisioni, si vede lontano un miglio che è un ricalco. E' esattamente questa l'impressione che lascia “Topolino e la banda dei cablatori”, una vicenda dove anche la difesa con l'ormai abusata “necessità di aggiornare il linguaggio” perde valore. Perchè, a parte la modifica (obbligata) della scansione in strisce, l'unica differenza è che i piombatori (idraulici) diventano dei cablatori, che evidentemente agli occhi di redazione e autori fa molto moderno. Differenza quasi inutile dato che alla fin fine gli aspetti riguardanti il lavoro (e relativi furti) sono praticamente solo accennati. Altrettanto si può dire per i personaggi, nessun approfondimento, nulla, si va via veloci alla conclusione.

Anche volendo provare ad ignorare il fatto che si tratta di un remake, la situzione non migliora: la storia in sè è fiacca, scritta di fretta, non c'è tempo di creare interesse che si è già alla resa dei conti. L'impressione è che avrebbe avuto bisogno di molte tavole in più oppure di un approccio totalmente diverso. Arriviamo poi al finale e lì il lettore neofita non capisce più nulla: perchè improvvisamente nelle 5 tavole conclusive, ecco finalmente il tocco dello sceneggiatore che mette in luce una complicità quasi cameratesca tra Topolino e il suo “capo”, in una sorta di resa dei conti molto faraciana per certi versi. Peccato che sia tutto totalmente gratuito, perchè nell'intero svolgimento della vicenda il lettore non ha avuto alcuna percezione di questo rapporto, che non è mai stato evidenziato. Chi può cogliere meglio il riferimento è allora proprio chi ha potuto leggere la versione degli anni '30 dove invece l'ambiguità di Tubi, il sospetto nei suoi confronti, l'ammirazione e poi anche la comprensione per il suo lato umano vengono costruiti con sapienza, striscia dopo striscia. Ecco il paradosso di questo remake: per poter essere compreso appieno ha necessità della conoscenza dell'originale, ma dal confronto con questi viene letteralmente schiacciato.

Che senso ha proporre una storia così? E' solo un esercizio di stile? Per conquistare nuovi lettori? Può darsi che qualcuno si interessi alla figura di Tubi e vada a recuperarsi l'originale, allora potrebbe anche esserne valsa la pena. Però se si vuole un giallo dignitoso, meglio andare sulla storia di chiusura, dove Bosco, senza troppi fronzoli, senza troppe menate autoriali, mette in scena un classicissimo plot, di quelli ultra-collaudati. Niente da rimanere col fiato sospeso, ma i giusti colpi di scena, l'indizio rivelatore, tutto secondo copione, un evergreen che regge anche alla sua milionesima incarnazione, una storia che si fa leggere e dà la giusta soddisfazione, con i disegni sempre molto personali di Camboni.

Oltre a questo, puntata di passaggio per la saga olimpica e un Faccini sempre divertente ma meno iperbolico del solito.

A completare il volume interviste agli autori del remake e una panoramica, invero un po' sconsolante, sull'estate musicale italiana, con giovani che sembrano vecchi (Mengoni), vecchi che vogliono sembrare giovani (J-ax, Pezzali), Dear Jack che vogliono sembrare i Modà (purtroppo riuscendoci), e quasi nessuno che voglia sembrare un musicista.

Autore dell'articolo: Gianni Santarelli

Abruzzese, ingegnere elettronico riconvertito in quel che serve al momento. Il mio rapporto con i fumetti segue tutta la trafila: comincio a cinque anni con le buste risparmio della Bianconi (sovvenzionato da mia zia), poi Disney, i supereroi Corno, i Bonelli (praticamente tutti, anche se abbandonati man mano). Verso i 18 anni scopro le riviste della Comic Art, leggo "Stray toaster" di Sienkiewicz e inizio un giro del mondo fumettistico che ancora non termina. Fumetto franco-belga, argentino, americano, autori celebri e sconosciuti, tutto finisce nella mia biblioteca, molto aspetta ancora di essere letto, nel frattempo dilapido una fortuna. Su due cose sono profondamente ignorante: i supereroi "classici" (ad eccezione di Batman, per cui ho una venerazione, non leggo una storia dell'uomo ragno & c. dagli anni 80) e il fumetto giapponese. Per il Papersera, con il nick "piccolobush", collaboro all'annuale premio, scrivo qualche articolo quando necessario e mi occupo, con puntuale ritardo, del settimanale "Topolino"