Topolino e la collana Chirikawa
Una magnifica storia di Romano Scarpa, “Zio Paperone e il nipote ideale“, apriva il numero 1294 di Topolino, il secondo in assoluto che mi comprarono i miei genitori. Era il settembre del 1980, avevo cominciato a leggere da pochissimo, e l’avventura mi colpì al punto da restare per sempre tra le mie preferite, anche perché, nel finale, dopo tante vicissitudini, si vedeva Paperino felice, pienamente riscattato agli occhi dello zione e dei nipotini.
La testata del titolo con la classica pistola e una meravigliosa espressione di Topolino!
Nell’82 mi coinvolse tantissimo “La storia di Marco Polo detta Il Milione“, scritta assieme a Guido Martina. Due anni dopo a mandarmi in estasi fu “Pippo e i parastinchi di Olympia“, proposta in versione aggiornata sul Classico dedicato all’evento a cinque cerchi, che mi fece compagnia nella consueta vacanza estiva di famiglia in camper per l’Europa. Quando, dodici mesi dopo, visitammo la Grecia e mi trovai fra i resti dell’antico stadio di Olimpia, il mio primo pensiero andò a… Pipponte! E poi le “Paperolimpiadi“, le strip stories, il graduale recupero di storie più o meno vecchie e la gioia nel trovarne di nuove sul libretto…
Questa premessa per dire che il grandissimo artista veneziano è stato essenziale fin dall’inizio della mia formazione disneyana, accompagnandomi poi lungo tutto il prosieguo del percorso. Ho dovuto aspettare tanto tempo, però, per colmare un’enorme lacuna nella conoscenza dell’opera scarpiana. Ebbene sì: mi vergogno un po’ ad ammetterlo, ma ho letto per la prima volta “Topolino e la collana Chirikawa” soltanto nel 2005, a seguito della sua inclusione in Topolino Story 1960, quando l’autore era venuto a mancare già da un paio di mesi. A mia parziale discolpa posso dire che la storia non è mai stata ristampata negli anni Ottanta, quando non mi sarebbe sfuggita, ma mi rendo conto che è un’attenuante di ben scarso rilievo!
Le vertigini di Topolino nella tavola di apertura della storia.
Comunque, anche con trenta primavere già sulle spalle si può provare la stessa meraviglia di un bambino posto dinanzi a qualcosa di inatteso, bellissimo ed emozionante. Sono in grado di affermarlo con certezza, perché è quello che è successo a me. Per un appassionato dei fumetti Disney e dell’opera di Alfred Hitchcock scoprire l’esistenza di una storia del genere rappresenta qualcosa di eccitante: una rivelazione così sconvolgente da avere… le vertigini!
Ed è proprio con Topolino in preda ai capogiri, su una passerella ad appena mezzo metro da terra in un cantiere edile, che si apre la vicenda. Un avvio shock, fin dalle primissime tavole: non siamo abituati a vedere Mickey così vulnerabile, tanto da svenire e dover essere sorretto dall’amico Atomino Bip Bip, qui alla sua terza apparizione. Inevitabile che il pensiero corra a “La donna che visse due volte” (o meglio, in originale, “Vertigo“), uno dei film che più amo, uscito nelle sale cinematografiche nel 1958, ossia due anni prima rispetto alla pubblicazione dell’avventura. Qui il poliziotto John “Scottie” Ferguson (interpretato da James Stewart) comincia a soffrire di vertigini in seguito al trauma subito per aver visto precipitare dal tetto di un grattacielo un collega che stava cercando di salvarlo mentre, nel corso di un inseguimento, era rimasto sospeso nel vuoto, aggrappato a una grondaia. In una scena, nel tentativo di guarire dall’acrofobia che gli è stata diagnosticata, Scottie sale prima su uno sgabello e poi tre gradini di una piccola scala, ma, colto da una crisi, perde l’equilibrio, venendo sostenuto dall’amica e spasimante Midge (Barbara Bel Geddes).
La citazione di “Vertigo” con la sensazione di vertigine provata da Topolino.
Un disagio analogo a quello che Topolino ritorna a provare qualche pagina più tardi. La location è ora la casa di campagna della tenera ed eccentrica zia Topolinda (alla sua prima comparsa), dove il protagonista, dietro consiglio medico, si è recato per riposarsi. Adagiato su una comoda ma alta sedia a dondolo, Mickey, preso dal panico, è costretto ancora una volta a chiedere l’aiuto di Atomino. In seguito, il topo perde di nuovo i sensi guardando un biberon murato nel cemento e, nella mente, si sente trascinare da un vortice verso un fondo indefinito e spaventoso. Proprio una spirale che gira su se stessa è l’immagine che caratterizza l’incubo di Scottie, un’effigie che in “Vertigo” compare fin dai titoli di testa, realizzati da Saul Bass. Il riferimento è anche a un altro film di Hitchcock, “Io ti salverò” (“Spellbound“), del 1945, in cui John Ballantyne (Gregory Peck) sviene quando entra in contatto visivo con delle linee parallele nere su sfondo bianco.
Di stampo finemente hitchcockiano è pure il modo in cui Topolino riesce finalmente a comprendere le origini del suo problema, vincendo poi le fobie da cui è afflitto. Atomino lo sottopone infatti a una particolare seduta ipnotica, facendolo tornare indietro con la memoria e portando alla luce il ricordo del trauma infantile alla base di tutto.
La visione in soggettiva del Topolino in fasce.
Evidente il rimando al metodo psicanalitico applicato nei confronti di Ballantyne dall’innamorata dottoressa Constance Petersen (Ingrid Bergman) insieme con il suo acuto e stravagante mentore, il dottor Brulov (Michael Chekhov). Man mano, così, essi ricostruiscono il significato dell’inquietante sogno ricorrente di John (la cui rappresentazione grafica fu affidata niente meno che a Salvador Dalì). Da notare che Hitchcock avrebbe riproposto temi freudiani nel 1964 in “Marnie“, con Tippi Hedren e Sean Connery.
Sia nella pellicola sia nella storia i flashback vengono mostrati in soggettiva e Scarpa, al riguardo, concepisce un’idea a dir poco geniale. Dato che l’evento traumatico è accaduto a Topolino quando non era che un pupetto di pochi mesi, lo vediamo ricostruito attraverso i suoi occhi dell’epoca, dunque con disegni infantili, dallo stile volutamente distorto e rudimentale. Seguiamo attoniti l’ingresso dalla finestra di un Gambadilegno fanciullo, il rapimento del bebè, la fuga sulla traballante due-posti a pedali guidata da una giovanissima Trudy (anche lei al debutto assoluto), il risveglio con i monelli già in possesso della collana richiesta come riscatto, l’abbandono del lattante in una casetta isolata con il biberon che finisce nel cemento fresco. Questa trovata, sviluppata lungo le quattro tavole iniziali del secondo tempo, mi ha subito entusiasmato. Ha una potenza evocativa dirompente e dona suggestioni che a ogni rilettura fanno quasi venire la pelle d’oca: alla faccia di chi sostiene che il mondo disneyano sia solo roba per bambini!
Topolino alle prese con Trudy, si noti la collana Chirikawa al collo dell’esordiente complice di Gambadilegno.
Al di là delle parentele hitchcockiane (che delizia questo rapporto virtuale tra due indiscussi Maestri, uno del Brivido e l’altro del Fumetto!), la trama è incredibilmente elaborata, con almeno quattro tematiche principali che vanno a intrecciarsi tra loro: oltre alle vertigini di Topolino, la misteriosa sparizione della collana del titolo, appartenuta a zia Topolinda, l’ondata di furti che ha travolto Topolinia e la scoperta di una città sotterranea del crimine, di stampo gottfredsoniano, guidata da Trudy e Gambadilegno. Con ognuno di questi argomenti si sarebbe potuta realizzare un’avventura di rilievo: miscelandoli tutti assieme con sapienza unica, Scarpa ha tirato fuori il capolavoro. Aggiungo che, nonostante la complessità , la storia fila liscia che è una bellezza, non lascia nulla di irrisolto e, oltre ad avvincere in ogni pagina, offre anche tanto divertimento. Come non ridere di gusto dinanzi a gag come l’inseguimento ai porcellini d’India, la gioia di Atomino nel ricevere una batteria per cena, la scena dal benzinaio o la scritta “capo” sulla scrivania di Trudy?
Insomma, è vero che ho letto “La collana Chirikawa” solo a distanza di quarantacinque anni(!) dalla sua prima pubblicazione (e undici dopo il “sequel”, “Topolino e il diario segreto di zia Topolinda” del marzo 1994), ma da allora sto cercando di recuperare e, a intervalli irregolari, mi tuffo ancora tra le sue pagine. Ogni volta assaporo nuove emozioni, mi diverto, tremo per la suspense e magari riesco a cogliere qualche prezioso dettaglio che non aveva colpito la mia attenzione. è accaduto anche prima di scrivere queste righe, e lo stesso si ripete per tante altre perle indimenticabili prodotte dalla stessa mano.
Concludo manifestando la gioia di partecipare con un piccolo contributo alla rassegna paperseriana di commenti in onore di Romano Scarpa. Sono felice di constatare come il ricordo di lui e della sua opera sia vivo più che mai: anzi, nell’ultimo decennio la fama e il prestigio legati al suo nome si sono persino accresciuti. Da parte mia, non potrò mai ringraziarlo abbastanza per le tante ore liete e profonde che mi ha regalato e continua a regalarmi.
06 MAG 2015