Pippo e i parastinchi di Olympia
La testata della storia, con il volto di Pipponte opportunamente oscurato.
Estate 1972: per le olimpiadi di Monaco, memorabili purtroppo non solo per meriti sportivi, esce in edicola un curioso albo rosa shocking, “Pippo alle Olimpiadi“, con 134 tavole di fumetti e quasi altrettante dedicate alla competizione sportiva. Si tratta di un supplemento a Topolino anomalo, non solo per il colore della copertina, ma anche per la scelta di pubblicare una storia inedita, per di più molto lunga e di un unico autore: Pippo e i parastinchi di Olympia.
Quel volumetto non lo vidi in presa diretta – non ero ancora nato – ma lo trovai verso la fine degli anni Novanta nelle bancarelle dell’usato di Piazza Arbarello a Torino, storico luogo ricco di inaspettate scoperte e di possibili e polverosi affari. Il volumetto in questione era davvero malconcio, con quasi metà della pagine stralciata via. Ma a me interessava la storia, intatta, e lo comprai a poco prezzo insieme ad una vagonata d’altra roba.
Si trattò di una lettura fulminante e coinvolgente, in cui l’autore si prendeva i suoi tempi per narrare con calma una storia con varie ambientazioni e diversi personaggi secondari. Più che l’azione però sono i rapporti interpersonali ad essere centrali nella vicenda. Dopo aver trovato in una grotta greca una statua simile a Pippo, con indosso due parastinchi in cuoio, i due eroi si convincono che l’antico vincitore sportivo Pipponte abbia trovato un nuovo erede tramite i due magici indumenti. Aiutati dal manager olimpico Averell Bombage, i due partecipano alle olimpiadi di Monaco, ma il piano diabolico di Gambadilegno, i granchi molli del borghetto vicino a Venezia Portostecco e un paio di altre presenze renderanno il tutto più complesso.
Gambadilegno, a mo’ di generale, pianifica le sue scelte muovendo i personaggi sulla scacchiera.
Scarpa inserisce nella storia, solo all’apparenza semplice e tradizionale, tutta una serie di pirotecniche situazioni, con un utilizzo non banale di nuovi personaggi. Prendiamo il folle barone tedesco, che ammannisce la folla lanciando una pioggia di marchi. Oppure il compassato e bizzarro “auriga” che, con la sua inquietante ciurma, dà il via ad una sequenza di vignette e a scambi di battute vivacissimi e profondamente ironici nella loro bizzarria. Perfino i due professori greci, nel loro essere normali, risultano personaggi particolari, così seguaci del metodo scientifico da scambiare Gambadilegno per un tranquillo archeologo.
E veniamo al perfido felino, qui in una prova stupenda. In una memorabile vignetta Scarpa lo fa giocare a scacchi con pedine che hanno i volti di noti personaggi (Topolino, Pippo, Macchia Nera, Trudy, Basettoni), per poi farlo passare a machiavelliche letture.
Un bel brindisi!
Gambadilegno appare come un nemico perfido, capace di architettare un piano astuto (anche se, viste certe premesse, forse fin troppo facilmente riuscito), utilizzando solo la psicologia e l’approccio dialettico per ingannare l’ingenuo Pippo. Scarpa riesce a non far notare certi difetti del piano, regalando tutta una serie di dialoghi veneziani geniali e brillanti, con la massa di Pietro che si dimena per salvare il suo pupillo.
Ma al maestro interessano i due amici, mai come in questa storia così vicini e sinergici. In vignette toccanti la separazione tra i due diventa terribile, e al lettore sopraggiunge una stretta al cuore nel vedere Pippo da solo nella grande Monaco. Scarpa sa rendere questi sentimenti anche nei dettagli, come nella barba lunga che il dinoccolato amico si fa crescere nella sua ricerca spossante e solitaria.
Una storia incredibile, fatta di tante storie e di momenti memorabili, tutti legati insieme da un unico sentimento: quello dell’amicizia tra Topolino e Pippo, e che tutti noi, leggendo queste pagine, abbiamo sempre voluto vivere. Scarpa ha saputo rendere umano e reale il rapporto tra un cane e un topo, tra gli sfondi lunari degli impianti olimpici di Monaco e tra quelli salmastri e umidi di una magica Venezia. In quel volumetto rosa shocking c’era già tutto. E, per nostra fortuna, c’è ancora.
04 GIU 2015