Carl Barks e la fuga dalle nevrosi della modernità

30 SET 2020

Possiamo definire il papero più ricco del mondo un personaggio “nevrotico”? Se sì, come è riuscito Barks a caratterizzare questo tratto della personalità della propria creazione? È solo comicità, oppure c’è dietro una particolare visione del mondo del cartoonist dell’Oregon? L’esotismo avventuroso che fa da cornice alle varie manie di Zio Paperone, in conclusione, è fine a sé stesso, o vi si può ricavare un significato perlomeno implicito?

Only a Poor Old (Schizophrenic) Man

Un uomo circondato

Un uomo circondato

Il concetto di nevrosi, pur essendo tra i più antichi per indicare i disturbi mentali, non è più usato per indicare disturbi specifici. Riprendendo la voce di Wikipedia, essa viene generalmente definita come «scarsa capacità di adattamento al proprio ambiente, incapacità di cambiare i propri schemi di vita e incapacità di sviluppare una personalità più ricca, più complessa e più soddisfacente»; tra i sintomi principali intercorrono «ansia, tristezza o depressione, rabbia, irritabilità, confusione mentale, bassa autostima, sintomi comportamentali come evitamento fobico, vigilanza, atti impulsivi e compulsivi, letargia, problemi cognitivi o pensieri inquietanti, pensieri ossessivi, negatività e cinismo». Sulla causa e le caratteristiche della stessa ci sono le interpretazioni di Sigmund Freud e Carl Gustav Jung.

Se per il primo, ultrasemplificando – e mi perdonino gli esperti – ha origine nell’infanzia e deriva da tensioni sessuali in senso lato, per il secondo «non è nient’altro che un tentativo di soluzione individuale (non riuscito) d’un problema generale», identificandola come il risultato finale di un confronto conflittuale tra le pulsioni intrinseche dell’individuo e «l’ambiente e il tempo in cui vive». Solo per citare un’altra interpretazione, la nevrosi, secondo la cosiddetta psicologia evolutiva, «è caratterizzata dall’unicità della personalità, ripetitiva e coatta».

Ora, sperando di non aver fatto arrabbiare troppi psicologi, arriviamo a noi.

Quando si parla di “nevrosi” i primi personaggi della fiction che ci possono venire in mente sono sicuramente quelli scritti da Woody Allen o il Charlie Brown di Schulz, ma a buon diritto possono rientrare in questa categoria anche Paperino e – soprattutto – Zio Paperone. Vediamo come e perché analizzando il personaggio barksiano e focalizzandoci su un tema che, come vedremo, è molto presente nell’opera di Barks: il conflitto tra individuo/società e passato/modernità.

La caratterizzazione “nevrotica” di Paperone è certamente uno dei suoi tratti salienti. Se c’è un personaggio Disney dalla vita stressante, quello è l’ultimo del Clan de’ Paperoni (in verità, anche suo nipote non ha certo una vita semplice, ma del Paperino barksiano ne parleremo magari un’altra volta). Nella sua quotidianità Paperone sembra apparentemente limitarsi a difendere i suoi spiccioli da ladri, truffatori, fattucchiere e parenti scrocconi, o a trovare nuovi modi per arricchirsi. Inoltre, non è sbagliato dire che il successo di questo personaggio sia molto probabilmente dovuto ai suoi eccessi e ai paradossi della sua personalità: mostruosamente ricco, capace di comprarsi intere nazioni senza battere ciglio, e allo stesso tempo estremamente povero, attaccato ad ogni moneta; vecchissimo, eppure dotato di entusiasmo quasi infantile quando le cose sembrano andargli a favore e di disperazione quando tutto gli è contrario. Rileggendo i “sintomi” della nevrosi, come non ritrovarli in un personaggio che paga (ben poco) il nipote per disperarsi al posto suo, perché non ha tempo materiale per farlo, salvo scordarsi il motivo della preoccupazione (Paperino e la banda dei segugi).

Preoccuparsi per…?

Ma ovviamente non si vive di sole gag; questa caratterizzazione non è automatica, ma frutto di un’evoluzione e di una riflessione dell’autore. Se dovessimo individuare il passaggio dal “primo” Paperone al “vero” Scrooge, lo potremmo trovare propria nella sofisticazione di questi lati del suo carattere nei primissimi anni Cinquanta. La storia più significativa al riguardo è senza dubbio Only a Poor Old Man, del 1952: l’avventura che segna de facto il passaggio da comprimario a protagonista si basa sullo stress assurdo e straniante della vita di Paperone. A parere di chi scrive, nella geniale tavola finale chi cerca di comprendere l’autore non può non capire quale visione della vita Barks giudicasse più razionale ed accettabile. Il Paperone barksiano è un personaggio solo apparentemente sicuro di sé stesso. Questo perché, nel renderlo più umano, l’autore ha deciso di mostrarlo nelle sue debolezze ed idiosincrasie, nella continua ricerca di accettazione e conferma del proprio stile di vita, specialmente nei confronti dei nipoti.

Paperi sull'orlo di una crisi di nervi

Paperi sull’orlo di una crisi di nervi

L’insoddisfazione è, insomma, la cifra della personalità paperoniana. Dall’altro lato, Barks è costretto a salvare Paperone da sé stesso o, meglio, da ciò che volente o nolente, rappresenta e che può renderlo spiacevole al pubblico: il Capitale. Per prima cosa lo trasforma da puro capitalista a semplice raccoglitore di spiccioli e cacciatore di tesori, poi via via ne mostra i lati più semplici ed umani. Qui arriviamo ad un primo punto fermo. Un personaggio può definirsi “nevrotico” non perché “rappresenta” qualcuno sotto stress o sotto terapia, ma perché proprio come “personaggio” in quanto tale è scisso tra ciò che è e ciò che per funzione narrativa deve essere: ecco l’impossibilità di cambiare, il problema dello sviluppo della propria personalità e, per tornare a Jung, la difficoltà di risolvere individualmente un problema generale – soprattutto quando rappresentiamo noi stessi, uno dei problemi generali del mondo. Ed eccoci allora al tema dell’esotismo o, se vogliamo dirla con un’altra parola, dell’escapismo: fuggire da sé e dalle responsabilità di una società soffocante è quello che fa Paperone quando parte alla ricerca di un tesoro. Ed è il modo perfetto per Barks per sviluppare narrazioni che una semplice parodia di Ebenezer Scrooge non avrebbe permesso.

Di paperi, terre incontaminate e… scoiattoli

Prendiamo in esame a tale riguardo tre classici barksiani, tre grandi storie d’avventura accomunate dalla medesima struttura: una forma di disagio, stress e tristezza di Paperone dà il via all’azione che si sposta in terre esotiche, con un finale “inconcludente” dal punto di vista dei personaggi, che ritornano bene o male al punto di partenza.

Riflettere sulla propria esistenza

Riflettere sulla propria esistenza

Zio Paperone e le sette città di Cibola (1954) è certamente una delle avventure più celebri del Good Duck Artist. Possiamo dire che è forse la storia “archetipica” del filone delle cacce al tesoro. Più che dell’intreccio, basato sul viaggio nel deserto alla ricerca delle città d’oro, ci interessano l’inizio e la fine. Le pagine iniziali sono tra le più iconiche della produzione barksiana: Paperone comincia a provare un sentimento di mancato appagamento dovuto alla mancanza di nuove opportunità d’affari da svolgere personalmente. La pressoché totalità dell’economia di Paperopoli (e quindi, nel microcosmo barksiano, del mondo intero), è infatti sotto il suo controllo – perfino l’appalto della vendita delle noccioline, secondo il sempre efficace stile comico di mescolare l’immensamente grande e il ridicolmente semplice. Il tutto ad una proporzione tale che neppure il proprietario ne ha la contezza precisa («Io non sono un uomo, sono una piovra che stende i suoi tentacoli dappertutto!»), e nonostante ciò tutto il “sistema” sembra andare avanti benissimo senza di lui.

Lo sviluppo dell’individualità è quindi impedito da un sistema spersonalizzato ed invisibile che trasforma persino colui che dovrebbe esserne il primo motore in un singolo ed inutile ingranaggio solitario. Da qui la scelta di seguire il nipotame nel deserto a raccogliere punta di freccia indiane, l’unica attività talmente umile da non essere compresa nel suo impero, e che quindi potrà fornirgli nuove avventure (nonché mezzo dollaro a punta). Il resto della storia è ben noto ai lettori, ma è necessario un piccolo accenno al finale: non solo Cibola viene distrutta accidentalmente dall’avidità dei Bassotti, ma tutti i personaggi, vittime di un’amnesia da shock, si dimenticano perfino della sua esistenza. È molto più di un semplice espediente comico-narrativo. Non sarebbe sbagliato interpretare questa conclusione come l’amara ironia di un Barks che teme che l’eccessiva e spersonalizzante modernità (della quale, gli piaccia o no, Paperone è involontariamente protagonista) finisca per dimenticare – e quindi distruggere – il passato.

Al diavolo la modernità e le sue fabbriche!

In Zio Paperone nella terra degli indiani pigmei (1957) il tema principale è uno di quelli più cari al nostro cartoonist: l’ambientalismo. Nell’antefatto della vicenda, lo Zione si rivolge all’agente immobiliare Trippa Marciapiede per trovare un luogo deserto, lontano dalla civiltà, perché desideroso di «abbandonare Paperopoli, con il suo fumo, il suo chiasso e la sua gente che spinge da tutte le parti!». Acquista così un enorme appezzamento di mille ettari nella regione canadese dei laghi, abitato da una tribù di indiani pigmei, i Pikoletos, che vivono a stretto contatto con la natura e che sono poco disponibili a trattare con stranieri venuti a disturbare il loro ecosistema. Se l’intreccio della storia non regala picchi notevoli fino al grandioso duello di Paperino con il Re Storione (il lettore più attento noterà che Barks ripropone tematiche narrative e gag già riutilizzate in altre sue storie: la sequenza del rapimento dell’indiano è ripresa abbastanza fedelmente da Paperino e il mistero della palude), a farla da padrone con tocchi di geniale ironia è ancora la controversa, quando non paradossale, personalità di Paperone. Solo apparentemente il disagio provato è fisico: si tratta (per tornare a Freud) di un vero “disagio della civiltà”.

Il signore della Natura

Il signore della Natura

La questione ambientale, sembra dire Barks, non si riduce a salvare l’ecosistema: è la necessità dell’Uomo di ritrovare un rapporto con la Natura in senso globale intendendosi, forse, anche come rapporto con l’Altro e il Sé. E tutto questo rapporto è estremamente controverso per Zio Paperone, il quale non solo è costretto ad ammettere di essere stato la prima causa di tutto l’inquinamento paperopolese, ma per tutta la storia, in un’incessante e genialmente comica elencazione dei più rari (e assurdi) minerali e/o prospettive di affari, sarà fondamentalmente diviso tra il sogno del ritorno allo stato di Natura e un meccanismo, ancora una volta inconscio e spersonalizzante, di accrescimento della ricchezza e di divoramento inconsulto delle risorse. Alla fine sarà un semplice calumet della pace “arricchito” di qualche strana sostanza a far definitivamente tramontare le illusioni paperoniane, facendo rivalutare al tycoon la cara “aria” di casa – un’amara ironia barksiana sull’inconsistenza e la leggerezza dei sogni e delle pretese di un uomo moderno impossibilitato a rinunciare alla Civiltà e alla sua comodità.

Una tavola da antologia

Una tavola da antologia

Ma la storia sicuramente più significativa per l’argomento che stiamo trattando, e che meriterebbe una riflessone a sé stante, è Zio Paperone e la dollarallergia (1954). Le tematiche sono simili a quanto già scritto, ma su scala sempre più alta. Qui siamo ad un livello ulteriore rispetto alle due opere precedentemente prese in esame, perché non abbiamo dei “semplici” accidiosi stati di apatie o velleitarie nostalgie dello stato di Natura: la Zione va proprio fuori di melone! Distrutto dallo stress di mandare avanti un impero fantastiliardario, Paperone va in pezzi e comincia ad invidiare la semplice vita di uno scoiattolo che dorme su un ramo (se non si trattasse “solo di fumetti”, sarebbe un’immagine di grande lirismo), finendo letteralmente in esaurimento nervoso. Qui Barks non solo raggiunge vette inesplorate in un fumetto umoristico tecnicamente “per ragazzi” nel descrivere le malattie mentali e lo stress, ma – diciamolo! – non sarà mai più eguagliato nella caratterizzazione di un personaggio che, d’altronde, è suo: sarebbe molto difficile trovare un autore al giorno d’oggi che faccia odiare a Paperone il proprio denaro, amnesie momentanee ed incantesimi di Amelia esclusi.

In ogni caso, problema radicale, soluzione radicale: per evitare che il patriarca della famiglia ci lasci le penne continuando a saltellare come uno scoiattolo, Paperino e i nipotini decidono di accompagnarlo nella mitica terra himalayana di Tralla-la (parodia di Shangri-la, nota nelle più vecchie edizioni italiane “Trulla”), dove, a quanto pare, non solo non esiste il denaro, ma neppure il metallo. Una volta trovata, i paperi vi si trasferiscono e sembrano trovare finalmente la pace “degli scoiattoli”, ma il disastro è chiaramente dietro l’angolo. Barks sostiene di essersi ispirato per la vicenda dei tappi di metallo allo stanziamento da parte del Congresso USA di una particolarmente esagerata somma per il bilancio federale, cosa che gli aveva dato lo spunto per ironizzare sulle cifre inconcepibilmente alte. In effetti, la trasformazione dei tappi del tonico per i nervi di Paperone in una moneta agli occhi degli ingenui – ma improvvisamente avidi – trulliani, andrebbe inserita nei manuali d’economia a proposito di inflazione ed helicopter money, nonché nella teoria dei beni posizionali di Thorstein Veblen, ma non è questo il punto che ci interessa.

Creare denaro dal nulla

È tremendamente geniale il ruolo del tutto inconsapevole di Paperone: se nelle Sette città di Cibola l’inavvertito ritrovamento di una pista fa scattare una “semplice” caccia al tesoro, se nella Terra degli indiani pigmei c’è una “lotta interiore” tra la ricerca della ricchezza e il sincero bisogno di pace e semplicità, qui Zio Paperone non fa niente di attivo per rovinare il Paradiso Perduto. Semplicemente, è condannato a essere sé stesso, e a recitare la parte in commedia che è chiamato a rappresentare: il Denaro, in tutte le sue forme. E via con l’esaurimento nervoso, ovviamente. Così, prima che Tralla-la finisca letteralmente distrutta da una pioggia di tappi, i paperi tornano mestamente a casa con uno zio da raccogliere col cucchiaino. Non c’è un’amara confutazione migliore del mito del buon selvaggio, o di quello dell’età dell’oro. L’American way of life – se la vogliamo leggere così – oramai sta per arrivare anche nelle sperdute valli tibetane, senza che né i tibetani né gli americani si ricordino di averlo chiesto.

Intanto gli scoiattoli continuano a dormire sui rami.

Utopia contro ironia?

Quindi, cosa possiamo ricavare da queste riflessioni su psicopatologia ed avventura? Dire che Barks abbia voluto fare il “filosofo” sarebbe certamente troppo difficile. Ma senza dubbio è riuscito a sottolineare, anche implicitamente, anche in quelli che sono “solo fumetti”, tematiche portate a ben altri livelli. Il rapporto tra psicologia e filosofia, sociologia e politica è stato uno dei grandi temi del XX secolo, a partire dallo stesso Freud con la sua opera Il disagio della civiltà, nella quale si esaminava lo scontro tra le pulsioni individuali e le necessità della società di reprimerle. Anche se l’approccio di Freud è stato superato e a volte criticato, il rapporto tra la psiche umana e il mondo circostante è stato un tema approfondito da svariati pensatori, riprendendo o addirittura superando in chiave critica la psicoanalisi e la psicologia stessa (la Scuola di Francoforte, Lacan, Deleuze, Foucault, in tempi più recenti il britannico Mark Fisher, che ha ricercato la “politicità” della malattie mentali e della depressione, causate dal senso d’oppressione del capitalismo neoliberista e dalla sua mancanza di alternativa). Filosofie molto diverse tra loro, ma tutte accomunate dalla ricerca del senso dell’individuo in una società, come quella moderna consumistica e capitalistica, divenuta sistematicamente opprimente proprio nel momento in cui all’individuo sembrava venir promesso l’appagamento totale.

Tutto è bene quel che finisce bene, nella nuova California?

Tutto è bene quel che finisce bene, nella nuova California?

Può il papero più ricco del mondo rientrare in questo tipo di filone? In parte, ma sicuramente da una prospettiva diversa. Diversa, innanzitutto perché lo stesso Barks, che era notoriamente un repubblicano piuttosto conservatore, molto difficilmente si sarebbe trovato d’accordo con queste filosofie “fricchettone”. D’altra parte, l’Uomo dei Paperi fu sempre molto attento a non far trasparire le sue idee politiche nei suoi lavori. Possiamo parlare però di un conservatorismo “prepolitico”: per Barks, come da lui più spesso ripetuto, l’America aveva raggiunto il massimo splendore nel primo decennio del XX secolo; non a caso la storia che ha sempre indicato come la sua preferita è totalmente basata sul tema del passato perduto a causa dell’avidità del progresso (Paperino nel tempo che fu, 1951). Ma per Barks questa “critica” della modernità non prende mai la forma della pura laudatio temporis acti: lo scarto tra l’assurdità del presente e il mondo ideale è risolto, amaramente, dalla sua geniale ironia.

L’ironia di Barks è unica. Un filo di satira di costume lega gag e tempi comici, nelle ten-pager come nelle grandi avventure, anche se non siamo abituati a vederla sotto la coltre della narrativa disneyana. Nel 1974 uscì in Italia il famigerato Introduzione a Paperino, un saggio critico su Barks nato proprio in quel filone culturale che abbiamo elencato sopra: ebbene, in mezzo a tanto osservazioni che possono apparire quantomeno discutibili se non usiamo una lente situazionista, si avanzava la tesi di un Barks eterodosso, se non rivoluzionario, rispetto al sistema narrativo di Walt Disney. Per quanto, come già detto, a Barks poco si confaccia il profilo del rivoluzionario, nel suo stile narrativo rimane sempre uno sfondo di riflessione e di pessimismo che solo in parte la sua sagace ironia riesce a ricondurre nel senso comune attraverso l’autoconclusività.

E quando lo fa, è per sorridere, non senza un salace, ma tutto sommato umanissimo sorriso sulle sventure del genere umano. E sottolineiamo umano, non “papero”. Non ha importanza se tutta la caratterizzazione dei personaggi e gli intrecci narrativi siano stati costruiti da Barks in funzione delle gag o dell’avventura. Quello che colpisce è il lampo di genio. Per tornare a quanto detto sopra, Only a Poor Old Man potrebbe concludersi effettivamente senza le ultime quattro vignette, con il meraviglioso primo piano sulla faccia affranta di Zio Paperone. Ma ovviamente non può finire così, nel mondo senza tempo della fiction. E, in verità, neppure nel “nostro” mondo, dove è molto difficile che le persone prendano autocoscienza. È quindi necessario alla fine tuffarsi nel denaro, scavarci gallerie come una talpa, nuotare come un pesce baleno eccetera. Ma il lettore più attento, di qualsiasi età, potrà chiedersi se l’accettazione e la giustificazione delle proprie idiosincrasie sia una cura migliore per la nevrosi delle illusioni di evasioni.

Risposta difficile, tanto per i paperi, quanto per gli uomini.

Autore dell'articolo: Carl Barks Duckposting