Intervista a Claudia Salvatori

17 NOV 2023

L’amore per la scrittura non muore mai.

Questa volta ospitiamo un’autrice che ha lasciato la sua impronta sulle pubblicazioni Disney tra la metà degli anni Ottanta e la fine dei Novanta con una serie di storie, spesso molto diverse tra loro, che hanno saputo imprimersi nella memoria dei lettori di quel periodo ma che si sono fatte apprezzare anche da un pubblico più vario negli anni successivi essendo state, molte di esse, spesso ristampate su collane per appassionati e collezionisti.

Genovese, precoce nella sua passione verso la scrittura, Claudia Salvatori si è costruita una solida e prolifica carriera di narratrice a tutto tondo, spaziando tra fumetti e letteratura, con puntate anche in altri ambiti espressivi.

Oggi ripercorre con noi la sua carriera.

Claudia Salvatori

Fotografia di Claudia Salvatori.

Redazione Papersera: Ciao Claudia, e grazie per il tempo che ci dedichi.
Iniziamo con una domanda classica: come hai iniziato la tua carriera di sceneggiatrice di fumetti e di scrittrice di libri?

Claudia Salvatori: Anni ’70. Follie di quegli anni: controcultura giovanile, collettivi femministi, gruppi di autocoscienza, ambienti alternativi… Non che il fumetto sia stato una di queste follie. Credo invece che, da queste follie, mi abbia salvata, dandomi una direzione che in quel momento storico nessuno aveva (a meno di entrare in politica). Ho parlato di follia perché ho visto di recente un documentario sul festival di Parco Lambro a Milano nel ’76, intitolato appunto Nudi verso la follia. Ci sono stata, al Parco Lambro nel ’76, annoiandomi parecchio. Ma negli ambienti alternativi, per mezzo di amici di amici, ho conosciuto una sceneggiatrice che mi ha introdotta allo Staff di If di Genova. E ho cominciato lì, nel ’79. Non vivevo una differenza fra sceneggiare e scrivere (per molti erano due cose diverse, la prima meno “nobile”). Ho cominciato a scrivere a tredici anni. I primi lavori, ovviamente, erano improponibili. Ero orientata verso il teatro.

RP: Sei stata attiva su “Topolino” e sulle pubblicazioni disneyane nel corso degli anni Novanta, un decennio di forti evoluzioni nel fumetto Disney italiano: cosa ricordi di quel periodo? Si respirava anche all’interno aria di cambiamenti?

C.S.: Sì, si respirava. Era un periodo unico, irripetibile… di forte espansione. Sia per l’azienda che per me personalmente. Nella mia storia di precariato mi sono sentita inserita, integrata in una realtà solida. Si lavorava moltissimo. Nuove testate e nuovi progetti… Ero invitata ai meeting e ai gruppi di lavoro per sceneggiatori. In quegli anni stavo maturando anche come scrittrice. Ero un magazzino di fiction e una locomotiva nutrita a libri, film e serie tv che viaggiava a tutto vapore.  

RP: Fin dalle tue prime storie emergeva una certa attenzione per i personaggi femminili: Kalamity Minni, Topolino e la nonna di Gambadilegno, Piccole Papere e Le piccole Papere crescono… cosa pensi delle ragazze del fumetto Disney? C’era un intento di rilanciarle in maniera più strutturata, da parte tua?

C.S.: Kalamity Minni è stata la prima storia che ho scritto con la mia firma, senza passare per lo Staff di If. Sì, l’intento di rilanciare i personaggi femminili era epocale, perfino una richiesta del mercato, direi… Comunque, assecondava la mia tendenza a illuminare quanto ordinariamente è in ombra. La nonna di Gambadilegno è una dolce e innocente vecchina ignara delle imprese furfantesche del nipote. Ne consegue un aspetto tenero della personalità di Gamba, che non vuole deluderla e tantomeno ferirla. Lei lo crede un così un bravo ragazzo…
Le mie piccole papere anticipano le riletture più recenti del romanzo di Alcott.   

Una delle avventure della serie “Dal diario delle antenate…”

RP: In questo contesto, un esempio particolare è il ciclo Dai diari delle antenate, che richiamava lo schema del Diario di Paperina parlando però di donne del passato, tra citazioni storiche e letterarie. Cosa puoi dirci di quel progetto?

C.S.: Credo che il merito dell’idea sia di Massimo Marconi. Non ricordo se ho scritto Piccole Papere prima, durante o dopo le antenate. Ricordo che un giorno si parlava in redazione del Diario di Paperina, e Massimo ha detto qualcosa come: “Fà i diari delle antenate“. 

Forse aveva compreso la mia propensione per la storia e le citazioni letterarie. La mania delle citazioni letterarie me la portavo dietro dagli anni ’80, quando tutto doveva essere metalinguistico. Le antenate sono state una bella serie. La fatica del lavoro era alleggerita dal divertimento. 

Il ritorno di Zia Topolinda dopo 34 anni…

RP: In Topolino e il diario segreto di Zia Topolinda hai ripreso l’iconico personaggio creato da Romano Scarpa più di trent’anni prima nella storica Topolino e la collana Chirikawa: da dove ti venne l’idea per questo illustre ripescaggio, e cosa hai provato quando hai saputo che l’avrebbe disegnata proprio Scarpa?

C.S.: Questo viene proprio da me, dalla mia storia di formazione. Da piccola avevo letto La collana Chirikawa e… mi ero spaventata moltissimo! Uno psychotriller! Topolino in culla viene rapito da Gambadilegno e Trudi di poco più grandi (ma terribilmente sinistri)…
Adulto, Topolino ha capogiri ogni volta che un evento lo rimanda a quel trauma infantile (spunto ripreso probabilmente dal film La donna che visse due volte). Ora, devo dire che il fumetto per me è l’infanzia. Non solo parte del nutrimento che mi ha fatto crescere, ma il mondo infantile nella sua essenza, di purezza, meraviglia e scoperta.
Volevo scrivere un seguito di quella storia, ripescando zia Topolinda. In sceneggiatura, ho dato una precisa indicazione: vorrei che venissero riprodotte, come un flash back di un film, le vignette in cui Topolino ricorda il rapimento, distorte alla maniera hitchcockiana dalla sua visione infantile. Scarpa ha accolto la proposta e ha disegnato tutto il sequel. Per me è stato come chiudere il cerchio con un pezzo della mia formazione. Ma ancora di più mi ha resa felice il fatto che lui stesso abbia voluto conoscermi, al meeting successivo in cui eravamo invitati entrambi. A quell’epoca lui viveva in Spagna, credo. L’ultima volta in cui l’ho visto è stato quando ho disertato una conferenza della convention di Capri per andare a fare il bagno ai Faraglioni. Gli ho detto di aver marinato e lui ha sorriso.

La copertina di “Sublime anima di donna” – Premio Scerbanenco 2001.

RP: Altro filone che ha contraddistinto la tua carriera disneyana è quello dei gialli: Topolino e il mistero della Sachertorte, Topolino e il leggendario Rattingher, Topolino e le leggende metropolitane, Topolino e il mistero di Puerto Topo, Topolino e il mostro di Micetown hanno caratterizzato le avventure mystery di Mickey Mouse in quegli anni. Non solo, nello stesso genere hai intrapreso una prolifica carriera anche come scrittrice, con numerosi romanzi, tra cui addirittura una trilogia ambientata durante la Germania nazista, che ti sono valsi diversi riconoscimenti (come il premio Scerbanenco nel 2001 per Sublime anima di donna).
Perché ami scrivere storie di questo genere? Quali sono gli elementi del giallo che più ti piacciono? Hai qualche ricordo particolare legato alle storie Disney citate?

C.S.: In effetti, ho iniziato a pubblicare libri come giallista: negli anni ’80 vincere un concorso per inediti (in quel caso, un concorso per romanzi gialli) pareva la sola via di accesso per un’autodidatta (tale mi considero, anche con la laurea) venuta dalle periferie. Durante la mia formazione non sono stata indirizzata dalla famiglia, e non ho avuto maestri, e forse è stato un bene: ho potuto cercare, leggere e guardare tutto, senza escludere nulla.
Ho amato Agatha Christie per aver inventato un genere nel genere, una fusione di commedia dell’arte (i suoi personaggi sono tipi umani, non persone) e congegno a orologeria. Negli anni 80 leggevo Cornell Woolrich e Patricia Highsmith. Non amo il giallo latino-simenoniano con commissario (escludendo i libri di De Angelis, che invece ammiro molto). Ovviamente, ho molto amato Scerbanenco. Del thriller, perché ho scritto soprattutto thriller, amo la struttura a teorema: si tratta sempre di dimostrare qualcosa. Un problema da risolvere, o anche denunciare la mancanza di una soluzione. Un messaggio, una richiesta, un grido d’aiuto. Illuminare l’evidenza di quello che non viene visto. 

La Sachertorte è una specie di summa metalinguistica di tutta la cultura gialla che avevo assimilato. Di Topolino e il leggendario Rattinger ho un ricordo particolare. Ero in redazione, e mi mostrano la lettera di un lettore politicamente indignato: ci aveva letto un attacco al pool mani pulite (il colpevole era un magistrato, ma i tempi di lavorazione sono lunghi e la storia era stata scritta più di un anno prima, ispirata da fiction in cui i criminali si celano sotto le divise della legge)! Ci abbiamo riso su moltissimo.

La scena clou di Topolino e il leggendario Rattinger.

RP: Quanto guardavi ai gialli del passato e quanto a quelli dei tuoi colleghi coevi come Silvano Mezzavilla e Tito Faraci?

C.S.: Romano Scarpa era il mio modello in Disney. Da bambina ho adorato soprattutto le grandi parodie. Con Silvano mi sono trovata d’accordo sul fatto che il thriller sia una favola nera e un racconto morale, come ho detto sopra. Tito Faraci aveva appena iniziato la sua attività quando io ero al termine della mia come fumettista. L’ho incontrato una sola volta, di sfuggita. il tempo di una presentazione. Non so dirvi altro. 

RP: Sempre nell’ambito crime hai firmato albi di “Julia” e “Nick Raider” per la Sergio Bonelli Editore: cosa puoi dirci di quell’esperienza? Che differenze ci sono tra lo scrivere un poliziesco disneyano e uno bonelliano?

C.S.: Mentre un giallo disneyano, oltre alla fatica, portava sempre un po’ di nostalgia, tenerezza e divertimento, quello bonelliano era tutta fatica e zero divertimento. Ma prendetela come un’esperienza soggettiva, soltanto riferita a me. Né l’una né l’altra collana erano nelle mie corde. Non amo l’hard-boiled e neppure il giallorosa. Inoltre l’immaginario bonelliano e il mio sono divergenti fra loro, e neppure di quel tipo di contrari che possono fondersi. Pensate a due pianeti diversi in collisione. 

Da Bonelli insistevano tutti (nell’ambito del giallo) sul realismo, e io non credo al realismo nella fiction. Quello che chiamano realismo è solo uno dei linguaggi della fiction. Neppure il Grande Fratello è realismo, perché i concorrenti tendono a mostrarsi al meglio, si atteggiano, fanno uso di strategie. Il solo realismo possibile sarebbe una telecamera nascosta h24, ammesso che le persone non recitino anche nella vita (lo fanno sicuramente). Il realismo bonelliano era una serie di regole codificate fondate sul principio: Formula che funziona non si cambia. Escludeva tutte quelle invenzioni, variazioni e manipolazioni che in Disney erano possibili. Facevo fatica a contenermi. 

Il mio sogno sarebbe stato creare una collana mia per un editore del calibro di Bonelli. Non è stato possibile. La sfida, comunque, andava raccolta, e sono riuscita a lavorare con materiali che non mi appartengono. Potete considerare Il leone e la gazzella, l’ultimo mio Nick Raider, come il tentativo più riuscito di trasfondere qualcosa di mio nel format bonelliano. Dai puristi, la storia è stata giudicata molto severamente. Agli altri è piaciuta.

Il leone e la gazzella, l’ultimo e più compiuto tentativo in Bonelli.

RP: Tra i libri gialli della tua produzione ci piace ricordare in particolare Superman non muore mai, ovviamente perché strettamente legato al mondo del fumetto. In esso fanno dei camei dei veri professionisti del settore come Alfredo Castelli, Massimo Marconi e Carlo Chendi (purtroppo scomparso due anni fa).
Gli ultimi due erano in Disney/Mondadori insieme a te e sono due nostri amici: puoi raccontarci qualcosa in proposito? Hai un ricordo in particolare di Carlo?

C.S.: In proposito, vi giro un brano da un editoriale Iperwriters non ancora uscito:

L’idea arriva da un articolo sulla dislessia infantile. Penso a una bambina  dislessica che impara a leggere associando le immagini dei fumetti alle parole contenute nei balloon, e da grande diventa sceneggiatrice. 

Un giro vorticoso di neuroni, una tempesta mentale. Fumetti e gialli avevano fino allora segnato la mia vita. Perché non accoppiarli, e far loro partorire un figlio? Un giallo ambientato nel mondo del fumetto. 

Intendevo rendere omaggio a due forme espressive disprezzate, e anche raccontare qualcosa di me. 

Il fumetto nella mia simbologia personale rappresenta l’infanzia, la corsa il edicola per comprare il giornalino, l’età dell’innocenza, delle nuvole parlanti in un cielo blu, dell’avvenire roseo e dell’ingenuità felice. 

Poi il dramma: il giornalino è strappato, l’infanzia violata. 

Per tutto il periodo in cui ho firmato le storie con il mio nome, circa otto anni, ho lavorato quasi sempre ed esclusivamente con Massimo Marconi. Lui e Carlo sono stati miei compagni di strada in quegli anni. Massimo era sempre sincero. Poteva dirmi che una storia era notevole, o che l’avevo tirata lì. Carlo era una cara persona. Un bambino trasognato e un nonno divertente. Credo che Carlo avesse una specie di affetto paterno per me.
Ricordo anche Giovan Battista Carpi. A Rapallo voleva mostrarmi la spiaggia che frequentava da giovane. E’ una cosa che ho notato spesso in persone alla fine della vita: tornare al passato, ricordare la giovinezza, guardare e mostrare vecchie foto…
Ero stanca e non sono andata con lui su quella spiaggia. Mi è dispiaciuto. Pochi mesi dopo sarebbe morto.

Claudia Salvatori - Superman

Superman non muore mai, un giallo ambientato nel mondo del fumetto.

RP: Un elemento che condividono varie tue avventure è una evidente sensibilità di fondo, in particolare nei confronti di Tip & Tap: per loro hai scritto Tip & Tap e i problemi di cuore e Topolino e la scomparsa di Tip. Qual era la tua visione e il tuo progetto per i nipotini di Mickey?

C.S.: Illuminare quello che è in ombra. I nipotini sono in genere trattati come un’unica entità, binaria o una e trina. Ma ciascuno di loro avrà pure una propria personalità. Io, almeno, se fossi un gemello o parte di una trinità vorrei distinguermi. Per Tip e Tap, nella prima storia, la differenza veniva innescata da un innamoramento per una compagna di scuola. I caso della seconda storia è più complesso. Con Massimo discutevamo della possibilità di superare i tabù. In passato c’erano state storie in cui si sfiorava la possibilità della sofferenza e della morte. In Paperino e il misterioso Mister Moster il papero viene clonato, e Archimede elimina il clone con un’iniezione letale. In Topolino e l’Imperatore della luce uno zio di Pippo scomparso in Africa viene ritrovato pazzo. Non svampito, come tutti i Pippi, ma proprio fuori di cervello. Insomma, Tip viene rapito e si insinua la possibilità che potrebbe… non tornare a casa! La redazione ha giudicato la storia bella ma paurosa e invece di pubblicarla sul settimanale l’ha collocata su Topomistery.

RP: Non hai trascurato nemmeno Qui, Quo, Qua: nella storia Paperino, Qui, Quo e… Qua da grande hai usato uno spunto che va a toccare il tabù della crescita dei personaggi Disney per riflettere sul rapporto familiare tra i paperi. Da dove eri partita e quale obiettivo ti eri data con quella sceneggiatura? Come la accolse la redazione?

C.S.: Forse vi deluderà… era uscito un film con Renato Pozzetto, Da grande. La storia di un bambino di otto anni che si ritrova di colpo con un corpo da adulto. Lo spunto è arrivato da lì. Mi divertiva l’idea di far crescere un solo nipotino mentre gli altri due restavano piccoli. La redazione l’ha presa in tutta tranquillità.

RP: Un’altra storia peculiare della tua carriera, che molti ricordano con affetto, è Paperino e il vecchio frac che, richiamando la canzone di Domenico Modugno “Vecchio frac”, racconta la vicenda di un indumento che sembra trasmettere la cattiva sorte a chiunque ne entri in possesso.
Solo Paperino, che di sfortuna se ne intende, saprà andare oltre le dicerie e riuscirà a trarne dei vantaggi; una trama molto più profonda di quanto appaia nelle sue prime pagine e anche in questo caso ti chiediamo da dove sia nata l’idea iniziale.

C.S.: Mi sono sempre piaciute le storie in cui un determinato oggetto passa di mano in mano, cambiando la vita di chi lo possiede. Ci sono leggende su un certo diamante (non ne ricordo il nome) che ha portato sfortuna a tutti i suoi proprietari. Questo tipo di struttura è come un veicolo che permette di visitare e raccontare diversi personaggi. Non viene quasi mai praticata nelle fiction, e non capisco perché. E’ ben presente solo nel genere horror, con le bambole Annabelle e Chucky, oppure è una intera casa infestata l’oggetto che veicola le storie. A mio avviso, questo tipo di struttura si presta bene anche alla commedia e ad altri generi. Per esempio, una dinastia raccontata attraverso un gioiello che passa da una generazione all’altra.

RP: Hai scritto diverse storie per mensili come “Minni & Company” e “Paperinik e altri supereroi”: c’era qualche differenza nell’approcciarsi alla stesura di un’avventura per “Topolino” e una per gli altri periodici?
Pensando specificatamente a Paperinik, trovavi il personaggio nelle tue corde? Come decidevi di affrontare una trama che lo vedeva protagonista, su quali aspetti del suo carattere o delle sue imprese ci tenevi a concentrarti?

C.S.: Mi sono sempre sentita un po’ a disagio con Paperinik. Non sono una purista dei generi e dei personaggi (anzi, ho invertito spesso i loro ruoli) ma nel caso del papero, non vedevo perché trasformarlo in Diabolik e in un supereroe della Marvel. Illuminare i lati in ombra (o rovesciare paradossalmente) è una cosa, far fare un salto di specie a un personaggio cambiando la sua natura è un’altra. Forse la penso così perché non ho mai scritto, e non scriverei, per Diabolik o per la Marvel. Non è nelle mie corde.

RP: Come mai a un certo punto la tua collaborazione con “Topolino” si è interrotta?
E pensi in futuro di tornare a scrivere fumetti (anche non necessariamente Disney)?

C.S.: Si è interrotta, o piuttosto estinta, dopo un lungo processo di delusioni e malintesi con un’interruzione improvvisa. Mi avevano esclusa dal numero speciale Topolino 2000 e ne ero rimasta molto amareggiata. Non mi hanno mai dato l’oscar disneyano (un topo placcato oro) per la miglior storia. Mi dicevano che questa o quella mia storia era la migliore dell’anno, ma ce n’era sempre (consentitemi la licenza poetica) una più migliore. Non mi avrebbero dato l’oscar alla carriera, credo.
A un certo punto ho smesso di inviare soggetti alla redazione. Non hanno fatto nulla per tenermi, neppure una telefonata. A questo punto non potevo e non dovevo più farmi viva.
Poi c’è un motivo più profondo, che riguarda solo me: non volevo arrivare alla fine della vita come autore Disney. Volevo altro. Volevo realizzare cose mie. Un mio progetto per un fumetto, Abel, era piaciuto a Marconi. Ma non c’era modo di collocarlo in Disney e tantomeno in Bonelli. E’ diventato un romanzo, uscito per Urania Epix. Per molto tempo i fumetti, come le sigarette quando ho smesso di fumare, mi sono mancati. Ora non più. Non escluderei di ricominciare, se me lo proponessero, se ne valesse la pena. 

Claudia Salvatori - Abel

Abel, ideato come fumetto e diventato romanzo.

RP: C’è una storia Disney che hai letto e che avresti voluto scrivere tu?

C.S.: Forse la prima con Amelia. Ho scritto invece una storia sul suo corvo Gennarino, che a un certo punto, stanco di farle da spalla (e di stare sulla sua spalla), sciopera e va a volare libero, per poi tornare da lei.
Da bambina sono rimasta affascinata da Paperin Amleto. Mi ha avvicinata a Shakespeare

RP: Se c’è un aggettivo che si può usare per descriverti probabilmente è “eclettica”: fumetti, narrativa, cinema… Ma anche all’interno dei vari media spazi molto: in Disney non solo gialli, ma commedie, western, storie in costume. Nei tuoi libri non solo crime, ma anche romanzi storici e altro ancora…
Da dove viene e come coltivi questa tua multiformità?

C.S.: Nell’eclettismo ci sono comunque delle frontiere, magari non ben definite. Fra tutto lo spettro della fiction, dall’iper-virile all’iper-femminile, sto nel mezzo. Non amo (e mi costano fatica) western, hard-boiled e noir, come pure romance, romanzo intimista e commedia sentimentale. Sono a mio agio nei generi che possono essere letti/scritti da tutti.
Detesto i generi che definiscono femminile e infantile (spesso associati, come se le donne fossero bambine) … e mi chiederete, allora la Disney? Bene, per me è un discorso a parte. Ho ricevuto una specie di imprinting disneyano quando ancora non sapevo leggere. Al mercato, mia zia mi ha comprato il mio primo giornalino, un Topolino in calzoncini rossi. E poi, le vecchie storie Disney appartenevano a un’altra epoca storica e culturale, quando i target bambini/adulti non erano così separati. Oggi sarebbero proibite.  Nell’attuale editoria per l’infanzia verrebbero bocciate. 

Dopo un lungo percorso di vita e lavoro sono orientata verso i generi horror, fantasy e weird. Non ho problemi particolari neppure con erotico, hard, splatter e slasher. Credo che questi generi siano l’ultima spiaggia libera per poter raccontare il mondo, ovviamente in linguaggio cifrato e sotto forma di favola.
Le sole strutture su cui il mainstream non ha ancora piantato la sua bandiera e che permettono a uno scrittore di dire. La Disney di una volta è l’infanzia. In fondo all’orrore, c’è l’infanzia.

Claudia Salvatori - La mummia del re serpente

La mummia del re serpente, il più recente lavoro letterario di Claudia Salvatori

RP: Vuoi parlarci dei tuoi progetti attuali? C’è qualcosa in particolare a cui stai lavorando e che vuoi comunicare ai tuoi fan?

C.S.: Vivo con una modesta pensione e faccio solo quello che mi piace, e senza fretta. Ho creato con due socie la Max Associazione Culturale – Iperwriters editore, e abbiamo pubblicato finora una quarantina di libri. Grandi classici, grandi opere dimenticate, quasi tutti i miei titoli (di cui ho ripreso i diritti) e alcuni lavori di autori italiani. Sono stati stampati in cartaceo miei libri editi e inediti. Attualmente pubblico con Independent Legions. Il mio ultimo lavoro, appena uscito, è La mummia del re serpente. E’ appena andato in scena a Tunisi EL, uno spettacolo teatrale il cui testo è un adattamento di Eliogabalo di Artaud e del mio Il sole invincibile.

RP: In conclusione ti lasciamo la parola: se c’è qualcosa che avresti voluto dire e che in questa intervista non è uscita fuori, questo è il momento adatto!
In cambio ti chiediamo un saluto per i lettori del Papersera

C.S.: Bene… il mio lavoro al di fuori della Disney ha incontrato settemila difficoltà. Incomprensioni, recensioni killer, freddezza, perfidie e perfino boicottaggi. Questo fa parte dei giochi sull’attuale scenario editoriale e lo accetto. 

Ma mi sarebbe piaciuto che un lavoro di decenni fosse accolto, letto, goduto, studiato, come avete fatto voi con le mie storie Disney. Che avesse suscitato l’interesse, la curiosità e il rispetto che le mie storie Disney hanno suscitato in voi. C’è una grazia particolare nel vostro modo di lavorare, e per questo, per la stima che mi dimostrate, vi saluto con tutto il cuore e vi stringo in un grande abbraccio virtuale. 

Autore dell'articolo: Gianni Santarelli

Abruzzese, ingegnere elettronico riconvertito in quel che serve al momento. Il mio rapporto con i fumetti segue tutta la trafila: comincio a cinque anni con le buste risparmio della Bianconi (sovvenzionato da mia zia), poi Disney, i supereroi Corno, i Bonelli (praticamente tutti, anche se abbandonati man mano). Verso i 18 anni scopro le riviste della Comic Art, leggo "Stray toaster" di Sienkiewicz e inizio un giro del mondo fumettistico che ancora non termina. Fumetto franco-belga, argentino, americano, autori celebri e sconosciuti, tutto finisce nella mia biblioteca, molto aspetta ancora di essere letto, nel frattempo dilapido una fortuna. Su due cose sono profondamente ignorante: i supereroi "classici" (ad eccezione di Batman, per cui ho una venerazione, non leggo una storia dell'uomo ragno & c. dagli anni 80) e il fumetto giapponese. Per il Papersera, con il nick "piccolobush", collaboro all'annuale premio, scrivo qualche articolo quando necessario e mi occupo, con puntuale ritardo, del settimanale "Topolino"