Topolino 3429

15 AGO 2021
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3429

Ed eccoci, finalmente: siamo al momento del grande rilancio di Macchia Nera. Gli editoriali del Direttore, una vera collana di perle che lega insieme tutti i numeri dell’annata del settimanale tramite anticipazioni e rimandi, lo aveva introdotto come qualcosa di profondo e deciso, affidato come sempre alla penna dello sceneggiatore di fiducia, Marco Nucci. Per risalire all’ultimo momento d’oro della vita del personaggio bisogna arrivare a Casty: vuoi con Darkenblot, vero e proprio “corso a parte” in cui l’incappucciato si faceva un poco più tecnologico e minaccioso, vuoi ancor prima con il ciclo di storie macchianeresche uscite negli anni Duemila, alcune delle quali raccolte nello splendido Classico curato, non a caso, proprio da Nucci.

E quel Classico fa quasi da necessaria premessa alla nuova storia, ricordando ai lettori intorpiditi da anni di furterelli di cosa fosse capace il più diabolico degli avversari topolineschi. Ma soprattutto, ci ricorda il grande debito del personaggio verso Casty; autore che in questa storia iniziale del nuovo ciclo, Io sono Macchia Nera, non è chiamato a gestire in prima persona il rilancio, occupandosi però della parte grafica.

Il suo lavoro in questa storia è, a tratti, di una dedizione assoluta: come se il decennio che ci separa dall’Incubo orbitale (l’ultimo Macchia Nera disegnato da Casty) si riversasse completamente nei dettagli finissimi delle tavole più belle. È un’arte facile a inquadrarsi in un classicismo scarpiano che non attira troppi commenti, complice una certa “funzionalità” narrativa che a volte prende il sopravvento sul virtuosismo artistico: ma le venature di inquietudine un po’… burattinesca e teatrale che abbiamo imparato a conoscere nel Casty “dark” sono tutte sue.

È singolare, forse, che l’autore friulano avesse riservato questi toni per storie diverse da quelle di Macchia Nera: quasi come se per lui Macchia fosse anzitutto un genio del male, un uomo sotto un mantello, piuttosto che uno spettro. Del resto, anche Gottfredson aveva rappresentato Macchia Nera come un’ombra, più sfuggente che incombente, più micidiale che minacciosa: e tanto erano rimasti più efficaci, invece, i rapidi momenti in cui l’incombere immediato della minaccia si faceva concreto e mortale.

Macchia Nera

Catabasi

Ed eccolo invece, in questa copertina di Fabio Celoni, spettrale come non mai. Un Macchia Nera senz’altro più teatrale di quanto già non fosse (e a suo agio nell’esserlo), meno calcolatore e più tenebrosamente romantico del solito: un antagonista di cui leggiamo addirittura i nitidi e foschi pensieri in una raffinata sequenza proemiale. Un carattere forse più accostabile a tanti altri “cattivi” di cinema e fumetto, specie recenti, di quanto fosse il modello precedente, ma che di sicuro (ed è questo ciò che conta) funziona. Le atmosfere spettrali e beffarde in cui Nucci e Casty lo avvolgono per l’occasione richiamano alla lontana certa iconografia dello “spavento ridente” un po’ alla Nightmare Before Christmas, che molti epigoni ha avuto nel tempo: in questa direzione va l’inusuale sorriso che compare sopra il cappuccio di Macchia Nera.

Nucci ricorre ad un godibile espediente per commentare (più che giustificare) il passaggio dal quasi umile ladruncolo degli ultimi anni, compare di Sgrinfia, allo spettro temibilissimo che si appresta a mettere in campo. Dopodiché la narrazione passa tutta dalla parte degli ignari topolinesi, in una prima parte di storia che ci ricorda una delle più vibranti storie di Casty, Topolino e la neve spazzastoria.

Lo spirito, del resto, è abbastanza castyano (prova che la selezione del Classico fu fatta da Nucci con altissima cognizione di causa), nonostante le differenze sopra accennate. Non lo è il ritmo, che grazie alla maggiore libertà sul numero di tavole è molto meno compresso che nelle vecchie storie, e si concede tutta una serie di gag, alcune godibilissime (ad esempio una con Manetta), altre forse meritevoli di qualche trovata più audace (quella sul parcheggio è forse essenzialmente ripetuta). L’apprensione per ciò che succede a Topolinia, nel frattempo, monta con efficacia, e ci conduce dritti alla puntata successiva.

Grande ritorno

Sorrisi da incubo

Insomma, la prima parte di questa storia di rilancio può dirsi senz’altro riuscita. Merito di entrambi gli autori, che danno prova di una dedizione al personaggio che proviene forse da idee e concezioni diverse ma appare funzionare bene. Se mai queste energie dovessero mescolarsi, nelle prossime storie, già a livello di trama e di sceneggiatura, il piatto messoci a disposizione sarebbe se possibile ancora più intrigante.

Un commento più generale: la stessa durata della storia fa capire come per Bertani, sempre più che coinvolto nella gestione delle storie, gli eventi portanti dell’annata topolinesca vogliano essere veri e propri archi narrativi che si sviluppano attraverso più storie tematiche, queste a loro volta divise in più puntate. Possiamo pensare alla recentemente conclusa saga di Vertigo come alla prova generale di questo formato.

Un formato che va ancora una volta nella direzione di fornire collanti, anche piuttosto volitivi, ad una rivista di per sé altamente multifocale. Un esperimento interessantissimo, e che non a caso è affidato in parte preponderante a un autore, Nucci, vicino al mondo bonelliano e dunque più a suo agio con sceneggiature meno dense e più d’impatto, intrise di una intenzionalità forse inedita per il mondo Disney. Ed ecco emergere la grande alleata del Macchia Nera di Nucci e del Topolino di Bertani: la retorica (sia letto in senso neutro e non necessariamente dispregiativo). La retorica dei toni, delle atmosfere, dei sentimenti e delle trame, mai più lasciate ad alimentarsi dei meccanismi insiti nei personaggi, ma guidate e se necessario dipanate per entrare nella logica uniforme della rivista.

Duckan

Il Duckan-pensiero

Ma veniamo al resto del numero: un quadro, ci si conceda, non altrettanto trascinante. Il momento più vivo è la prima puntata di una nuova storia di Marco Gervasio e Giuseppe Facciotto, Paperinik e la minaccia alla fattoria, che essenzialmente pone le basi emotive per l’azione: come di consueto, ci aspettiamo una diluizione in varie puntate, nell’attesa di vedere un Paperinik lanciato all’attacco dopo il trauma – di una profondità inaudita va detto, quasi difficile da valutare – che lo ha colpito.

Il Paperino/Paperinik di Gervasio è un personaggio prodigo di aperture verso il lettore circa i propri pensieri e stati d’animo, così come lo stesso Fantomius. Ci pare questo un tratto tipico e forse non così spesso sottolineato, che va nella direzione da una parte di una caratterizzazione particolarmente chiara e aperta, e dall’altra di una ormai consueta diluizione della vicenda.

La conclusione della storia di Tito Faraci e Libero Ermetti, Topolino e l’oscura finale, si articola attraverso un lungo inseguimento che non vede forse troppo ispirati né la sceneggiatura né il disegno: la ripetizione della stessa gag “a equivoco”, certamente molto faraciana, ci accompagna alla soluzione dell’enigma e all’identità del sabotatore-fautore. È un po’ strano vedere questo grande autore un poco schiacciato in storie brevi o dalla comicità rodata e ripetitiva, ma va anche detto che i suoi lasciti alla disneyanità, sebbene a volte misinterpretati, sono già cospicui. Degno di menzione il passaggio in cui scopriamo che Topolino usa gli iconici pantaloncini rossi come pigiama.

Pantaloncini

Pantaloncini d’epoca e pantofole con l’effigie… Topolino vivrà nel culto della propria personalità?

Segue Gastone e la spiaggia della (s)fortuna, dall’ispirazione abbastanza retrò, tanto da poterla facilmente ascrivere alla rivista di vent’anni fa: la sceneggiatura è di Marco Bosco e i disegni di Giulia Lomurno, una nuova autrice che appare ben lanciata anche se, come è normale, ancora assai saldamente ancorata agli schemi grafici più collaudati ed elementari del Topolino di oggi. Infine, in Battista, Filo e l’affare vacanze, di Giorgio Fontana e di un (come sempre) ottimo Carlo Limido, i due protagonisti si incontrano e si scontrano all’ombra delle ferie estorte inusualmente a Paperone.

Una conclusione di numero forse un po’ lontana dalla direzione che la rivista appare voler tenere. Ma da che mondo è mondo (o meglio, da che Topolino è Topolino) quella delle storie brevi è forse la madre di tutte le battaglie editoriali.

I grandi progetti narrativi e artistici si impalcano quasi sempre sulla gestione delle storie lunghe, concentrate o dipanate che siano; ma la carenza di una spinta motrice forte nell’ambito della produzione umoristica di breve o brevissimo respiro è un problema che si ripresenta ciclicamente, risolvendosi talvolta in maniera parziale sulle spalle di autori singoli e incapaci di sopperire da soli al fabbisogno settimanale: vuoi Enrico Faccini, il più grande autore di storie brevi dall’epoca dei fratelli Barosso, vuoi più di recente Marco Nucci con l’ottimo Newton.

Cosa abbia in serbo su questo fronte la nuova gestione è ancora poco evidente all’occhio dei lettori; ma confidiamo che una volta consolidata la rotta possa, come di consueto, stupirci e intrattenerci. Buona lettura!



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Autore dell'articolo: Guglielmo Nocera

Oggi espatriato nel paese di Astérix, mi sono formato su I Grandi Classici Disney, che acquisto tuttora, e Topolino Story prima serie. Venero la scuola Disney classica, dagli ineguagliabili vertici come Carl Barks e Guido Martina ai suoi meandri più riposti come Attilio Mazzanti e Roberto Catalano (l'inventore della macchina talassaurigena). Dallo sconfinato affetto per le storie di Casty sin dagli esordi (quando lo confondevo con Giorgio Pezzin) deriva il mio antico nome d'arte, Dominatore delle Nuvole. Scarso fan della rete, resto però affezionato al mondo del Papersera, nella convinzione che la distinzione tra esegesi e nerdismo sia salutare e perseguibile. Attendo sempre con imperterrita fiducia la nomina di Andrea Fanton a senatore a vita.