Topolino 3473

20 GIU 2022
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Topolino 3473

La storia delle parodie Disney italiane è lunga, blasonata e contraddittoria. Fondate, come tutti sanno, da Guido Martina, si distinsero subito per una spiccata mancanza di fedeltà all’originale, funzionando da subito come veri e propri riadattamenti. Martina aveva la preparazione culturale e l’inventiva per rimescolare tutte le carte in gioco, gestire il linguaggio in maniera funzionale, prodursi in associazioni di idee e slanci in avanti che portavano linfa continua alla sua idea di umorismo.

Un umorismo svagato, iperbolico, che soprattutto nelle parodie prendeva pieghe completamente inattese, modellando i luoghi dell’azione, spesso irrelati all’ambientazione del lavoro originale, fino a formare un panorama inaspettatamente accogliente per gli eventi narrati. Si pensi a Paperiade, Paperodissea (per avvicinarsi alla storia della settimana) o al poco conosciuto L’oro di Reno ovvero L’anello dei nani lunghi: Reno è la cittadina del Nevada, l’oro viene dal gioco dei biliardini, i nani lunghi crescono a ritmi di sieste, ma a partire da queste premesse gustosamente bislacche l’azione si pone come un nuovo Ring, completamente alieno nei fatti, e al contempo sinistramente affine nello schema di azioni e reazioni – alla Tetralogia originaria.

Ciò che rassicura nelle parodie martiniane, in quanto garanzia di un’esperienza guidata dalla mente dell’autore e non dalla comodità dell’ispirazione, è che l’originale viene disatteso. Ciò che sorprende, viceversa, è il modo in cui viene recuperato. Martina esce dalla retrospettiva sulle sue parodie come un ingegno sornione, sveglio, autonomo, pronto a prendere la strada difficile a costo di tagliare corto su eventi dell’opera originaria. La storia arriva in fondo, il numero di pagine è spesso corposo ma mai più di tanto.

E alla fine, le logiche del sistema dei personaggi paperopolese (o meno spesso topolinese) hanno sempre il sopravvento, cedendo a una ripetitività dei finali che è forse la critica più grande rivolta a quella stagione della produzione del Professore. Ma non poteva essere altrimenti: il canone Disney a fumetti era internazionalmente affermato da relativamente poco, quello italiano era addirittura neonato. In Italia il fumetto come forma d’arte seriale, rassicurata e costruita sulla propria omogeneità a se stessa, stava combattendo la battaglia di identità che lo avrebbe portato al fenomeno di massa e ai milioni di copie.

Ma veniamo a noi: ecco Paperiliade – Libro primo: L’ira funesta, con i testi di Roberto Gagnor, i disegni di Alessandro Perina, le chine di Roberta Zanotta nella prima parte e di Perina stesso nella seconda, e i colori di Nicola Serra nella prima parte e Chiara Bonacini nella seconda. È legittimo inserire questa storia nel filone che nasce con i lavori di Martina? La nostra risposta è no, e crediamo che sia importante rimarcarlo, per sgombrare il campo da interpretazioni fuorvianti che potrebbero condurre ad una lettura parziale e anche innecessariamente ingenerosa.

L’assedio di Troia

Il lavoro di Gagnor muove su presupposti del tutto diversi. Anzitutto, almeno a giudicare da queste prime puntate, esso nasce e muore con l’Iliade. I personaggi, in maniera più o meno convinta (riuscita, anche se si salva per un pelo dal posticcio, la gag con cui Pippo-Omero si giustifica per aver rimescolato nomi e interpreti rispetto alla Topodissea del 2018, in pieno spirito aedico), interpretano i ruoli di alcuni degli eroi dell’Iliade, nei luoghi dell’Iliade e (più o meno) con le motivazioni esposte nell’Iliade. Ognuno di questi fattori, ovviamente, è soggetto alle usuali correzioni parodistiche, ma l’impianto fattuale rimane all’orizzonte. Una “comoda” guida per la narrazione, quindi, che si limita a lavorare dall’interno sulle gag e sull’adattamento della trama ai personaggi Disney: l’esatto opposto della strategia martiniana.

Gag e rivisitazioni, quindi: vediamo con che spirito. Funziona l’uso di Pippo-Omero, la sua interazione un po’ metafumettistica con l’ambiente e i personaggi; funziona a metà l’inquadramento di Paperachille, una specie di (che Zeus ci perdoni) Cristiano Ronaldo acheo, in fondo azzeccato pendant all’arroganza del passionale guerriero greco, ma ripetitivo nelle infinite, mefitiche esalazioni calcistiche, che deflagrano poi nella V.A.R. (Visione Achea Retroattiva) e in un cacofonico “Zeus Moviolone”; non funziona – ad esempio – l’episodio della mela, stravolto nei protagonisti e ai limiti del politically correct in una rappresentazione scherzosa sì, ma troppo pesante perché venga di riderne, dei caratteri “femminili” delle dee.

Brividi dal futuro

Non è la prima volta che lo sconfinamento negli stereotipi (magari con l’intenzione di metterli in ridicolo) produce goffaggini indesiderate. Succede quasi puntualmente nelle storie che hanno per oggetto Sanremo o varianti, o più vagamente coinvolgenti i capricci dei VIP. Ma buttarci dentro l’Iliade forse era operazione da farsi, semmai, con più perizia: sono sì gli dei greci aderenti agli umani vizi e virtù, ma sono là per codificarli, amplificarli, trasfigurarli in una narrativa. Non per assecondarli con una strizzatina d’occhio.

Il fumetto che guardando ostentatamente alla letteratura omaggia, di fatto, la televisione, quella di prima serata del calcio, delle battutine e dei conduttori sornioni, è un fenomeno strano. Non sbagliato o privo di interesse: ma – va da sé – se satira voleva essere, tale non è stata. E sarebbe veramente troppo pretendere che lo fosse, su Topolino.

Insomma, questa Paperiliade vuol far ridere in un modo che in certo senso si allontana dai canoni della disneyanità, della martinità e pure, en passant, dell’eroicomico bottariano: e fin qui notizia tutt’altro che cattiva, perché bisogna pur liquidare i modelli se si vuol fare qualcosa di nuovo. Ma non stabilisce una voce propria, appoggiandosi troppo spesso, da una parte, a quell’umorismo televisivo che è – con rispetto parlando – insufficiente a reggersi da sé; e dall’altra al canovaccio dell’Iliade che – è comprensibile – fatica, senza un più elaborato e raffinato straniamento, a fare i conti con quel linguaggio.

Ma veniamo ai disegni: l’impegno di Alessandro Perina nel compito di raffigurare armature, mura e personaggi in un sapido intruglio iliaco è tangibile e riuscito. Talvolta, complice la lunghezza della storia, alcuni passaggi risultano un po’ rapidi, ed è un peccato perché lo studio dietro questo lavoro appare ponderoso. Non solo: è evidente come il tratto di Perina, scanzonato, ironico, iperattivo, sia perfetto per catalizzare la leggerezza, quasi frivolezza, che lo sceneggiatore Roberto Gagnor vuole comunicare.

Passiamo finalmente alle storie rimanenti. La seconda (e ultima) puntata di Gastone lo sfortunato (testi di Emiliano e Matteo Mammucari, disegni di Stefano Zanchi, colori di Emanuele Virzì) fa da degna conclusione alla peculiare storia iniziata una settimana fa. I disegni di Zanchi brillano per estro, giusto talvolta si lasciano andare a delle pose non riuscitissime, soprattutto quando i bordi della vignetta tagliano inopinatamente il personaggio all’interno. Ma la qualità del lavoro è alta, il progressivo affrancamento dal “freccerismo” e l’abitudine all’adozione di soluzioni audaci non potrà che spianare la strada verso una vera colonna del Topolino dei prossimi anni.

Quest’avventura è un’ottima occasione per sottolineare qualcosa che meriterebbe forse analisi più estesa: da oltre un anno a questa parte, la linea del direttore Bertani sulle sceneggiature sta mettendo da parte, sempre più spesso, un elemento centrale di molte, moltissime storie Disney: il denaro.

Amelia, la fattucchiera solitaria

Da che Topolino è Topolino (e non solo in Italia), più di una storia su due ruota attorno a un furto, un ricatto, un’operazione commerciale, una moneta. A noi pare evidente l’impegno in senso contrario dell’attuale direzione, che pone a fondamento della maggior parte delle storie lunghe questo o quel sentimento, più o meno riposto nella psiche di uno dei personaggi.

È il caso di Amelia in questa storia, alle prese con una difficile e sfumata gestione della solitudine. Ed è anche – ma molto giustamente in maniera secondaria – il caso di Gastone “sfortunato”, appunto. Certo, il movente apparente è comunque il denaro, la brama di ricchezza: ma anzi, proprio per questo risalta di più come i veri moventi siano emotivi, affettivi, esistenziali. Il difetto della storia, forse, è insistere su questo elemento, il sentimento profondo, risolutore e inaspettato: un “vizio” che accomuna tutti i nuovi arrivati al linguaggio Disney (gli sceneggiatori di questa storia provengono dalla scuderia Bonelli) e che marca un po’ il confine tra approdo e integrazione nella tradizione topolinesca.

Inoltre, il ritorno allo status quo, la sbandierata tradizione ameliesca, appare naturale a metà: il riavvicinamento a Gennarino è sincero e vivo, ma non si può non pensare che la ragione dello scacco di Amelia in questa storia non è stato riuscire contro Gastone, ma riuscire tout court. Certo arrendersi a questa verità sarebbe stato troppo tragico, in una storia di Topolino: si tratta, come sempre, di trovare la quadra narrativa, certamente non uno scherzo per nessuno.

Una temibile signora del Male

Inoltre, non può sfuggire che qui abbiamo un Gastone “umano”, un Gastone che con naturalezza empatizza con Paperino, un Gastone sereno e quasi filosofo. Il rischio dell’out of character, nonostante le considerazioni sopra fatte sul liberarsi dei modelli, è tangibile, e nel caso specifico di Gastone c’è ancora qualcosa che stride; come se il passaggio fosse stato dato troppo per scontato, e ci avesse restituito semplicemente un personaggio diverso, e non un’evoluzione dello stesso.

Tornando per un attimo al punto sollevato poc’anzi, sulle motivazioni delle storie Disney, ci si lasci dire che questa “attenuazione” del movente… pecuniario è, di per sé, una dovuta ventata d’aria fresca. Ci sentiamo personalmente molto in sintonia – sia narrativa che diciamo pedagogica – con questo tutt’altro che scontato cambio di rotta. Forse però concentrare così tanto i moventi dell’azione di nuovo su un unico polo – sebbene radicalmente diverso – ossia questi sentimenti un po’ umbratili messi in seno a dei personaggi che sì li tollerano ma non sempre li generano spontaneamente, non appare come la giusta alternativa. Soprattutto se è portata avanti con un pizzico di retorica in più rispetto al necessario, come ci pare di ravvisare in tutte le storie di questo tipo uscite finora.

Il resto del numero brucia velocemente, da Topolino e la casetta nel bosco, prova non molto riuscita di un redivivo Rudy Salvagnini assistito dal molto bravo Andrea Malgeri ai disegni e Gaetano D’Aprile ai colori, a Rockerduck e la bombetta prediletta, altra storia per nulla memorabile stavolta scritta da Davide Fortuna, disegnata da Valerio Held e colorata da Monica Rossi. Nell’ultima storia si fiutano aromi di una certa fase dell’era De Poli, quando l’interazione fra Rockerduck e il buzzurro Truz poteva essere considerata ordinaria amministrazione: segno quello, allora come oggi, di una geometria dei personaggi che si riduce a vera e propria combinatoria, un gioco di carte che può portare a una quantità arbitraria di “strane coppie”.

Ma a chiudere il numero c’è la vera sorpresa dell’albo: il prologo alla nuova “stagione” di Foglie rosse, di Claudio Sciarrone. Poche pagine, ma una notevole carica di freschezza, l’uso di un linguaggio a metà fra il manga, le emoji e contaminazioni varie (come sottolineato da Sciarrone stesso in una bella intervista). Lo scopo di questo breve episodio è di introdurre appunto la storia della prossima settimana, che l’autore promette ricca di azione e dai ritmi vivaci.

Il viatico di ogni sana amicizia

Poco da dire su questo pugno di pagine, se non che, nonostante proprio il linguaggio usato potrà far storcere il naso a molti lettori, per la prima volta in tutto l’albo si respira davvero una padronanza completa da parte dell’autore di ciò che sta accadendo, di come lo si sta dicendo, e di come e quanto i personaggi siano pronti ad amalgamarsi con la novità. Una trovata audace e inattesa, eppure un’esecuzione sicura, rassicurante, paradossalmente sobria a causa della sua aurea brevitas.



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Autore dell'articolo: Guglielmo Nocera

Oggi espatriato nel paese di Astérix, mi sono formato su I Grandi Classici Disney, che acquisto tuttora, e Topolino Story prima serie. Venero la scuola Disney classica, dagli ineguagliabili vertici come Carl Barks e Guido Martina ai suoi meandri più riposti come Attilio Mazzanti e Roberto Catalano (l'inventore della macchina talassaurigena). Dallo sconfinato affetto per le storie di Casty sin dagli esordi (quando lo confondevo con Giorgio Pezzin) deriva il mio antico nome d'arte, Dominatore delle Nuvole. Scarso fan della rete, resto però affezionato al mondo del Papersera, nella convinzione che la distinzione tra esegesi e nerdismo sia salutare e perseguibile. Attendo sempre con imperterrita fiducia la nomina di Andrea Fanton a senatore a vita.