Intervista a Fabio Celoni

11 AGO 2021
Fabio Celoni

Fabio Celoni, nato nel 1971 a Sesto San Giovanni, è tra i più apprezzati fumettisti italiani. La sua matita traccia i tratti distintivi dei principali personaggi di casa Disney, Bonelli e non solo. Brillante sperimentatore, artista poliedrico, Celoni è oggi impegnato su più fronti. Di alcuni di essi è lo stesso autore a parlare in questa intervista rilasciata in occasione di un appuntamento molto importante per i lettori di Topolino: le carte da gioco, che gli appassionati troveranno in allegato al settimanale l’11 e il 18 agosto 2021.

Ciao Fabio, e grazie per aver accettato questa intervista. Partiamo subito dalla… bruciante attualità. Questa settimana è in edicola con Topolino la nuova serie delle Carte d’Autore da te disegnate. Ci racconteresti la genesi del progetto e come hai preparato il lavoro?

Ciao e grazie a voi!

Il lavoro sulle carte è stato molto impegnativo e allo stesso tempo intrigante. Quando mi è stato proposto dalla redazione, ho accettato subito malgrado fosse (e rimanga) un periodo estremamente fitto di lavoro, perché da bambino ero un collezionista di carte disneyane, oltre che appassionato giocatore, e avrei fatto… carte false per poter avere un’occasione del genere.

Ho elaborato a quel punto un soggetto di massima, una sorta di storia che legasse l’intero mazzo. L’ambientazione che ho scelto è stata quella di un “medioevo fantastico”, per poter giocare al meglio con colori e ricchezza di costumi. Ho pensato vagamente al Brancaleone gassmaniano e ai bellissimi abiti di Ghirardi, ma senza riguardare nulla, volevo solo che ci fosse un “profumo” simile. Essendo il gioco delle carte in fondo una sfida, o una battaglia, mi sembrava perfetto. Inoltre, avrei potuto giocare sulla dicotomia buoni/cattivi e gestire in tal modo le carte rosse e quelle nere.

Ho inoltre voluto utilizzare sia l’iconografia antica napoletana che quella più moderna “francese”, fondendo i semi che in fondo sono una derivazione gli uni dagli altri. Ho cercato di creare qualcosa di armonico, sia a livello simbolico e narrativo che sotto il profilo tecnico, in cui mi sono destreggiato tra pittura a tempera per i personaggi e pittura digitale per la parte dei simboli.

Nel Fabio Celoni che oggi scrive e disegna, quanto c’è del piccolo Fabio che leggeva le avventure dei topi e dei paperi?

Carte Disney

Le superbe carte celoniane

Tutto. Ogni atomo di quel Fabio è sopravvissuto ed è lui che guida la partita. Il Fabio adulto è solo un supporto, un tizio con la bacchetta, un po’ rompiballe, che cerca di bilanciare quel fuoco ardente cercando di contenerlo e guidarlo con quel po’ d’esperienza che si porta sulle spalle.

Venendo alla tua carriera, partiamo dall’inizio. Hai esordito nel 1991 (sei stato l’autore più giovane ad apparire su Topolino, quell’anno). Nel 1994 hai incontrato nientemeno che Carl Barks. Cosa ci racconti di lui, anche e soprattutto come influenza sul tuo disegno? Dalla sequenza finale con Paperone in Soul Papers fino ai recentissimi Tempi del Klondike, sembra che alcune suggestioni dell’Uomo dei Paperi tornino volentieri nelle tue matite.

Barks l’ho incontrato a Milano, al ristorante Don Lisander. Per me è stato come incontrare Mandrake. Un mago che aveva creato incantesimi meravigliosi ed era responsabile di molti dei miei sogni. Dire che è stato emozionante è dir poco. Gli avevo portato da firmare una delle mie storie preferite tra le centinaia che aveva creato, Zio Paperone e la disfida dei dollari, un capolavoro. Se fai Disney è impossibile non essere influenzato da Barks. Se non l’hai letto e studiato, devi probabilmente cambiare mestiere o quantomeno cospargerti di sale e farti leccare dagli avvoltoi. Non saprei dirti “come” Barks influenzi le mie cose, anche perché graficamente siamo molto distanti, ma lo fa, inevitabilmente, come lo fanno tanti altri autori che ho letto e amato. Lui, però, insieme a Gottfredson, resta su un altro gradino, irraggiungibile.

Quali altri maestri sono i tuoi punti di riferimento?

Restando in ambito Disney, oltre ai già citati ci sono certamente i grandi maestri italiani con cui sono cresciuto: non posso non citare Cavazzano, Carpi (che poi è stato il mio maestro “effettivo” durante il tempo della gavetta), Scarpa, Massimo De Vita. Altri miei maestri sono stati gli animatori disneyani fino a fine anni Ottanta, la vecchia scuola, insomma, di cui mi sono nutrito fino a farne indigestione.

Qual è stato il tuo rapporto col cinema d’animazione? Pensiamo ai Tre Porcellini, protagonisti della tua storia di esordio, dove abbonando anche i riferimenti a The Old Mill, oppure a Kingdom Hearts

Vedi? Ti ho letto nel pensiero e ho già risposto. Ho parlato del cinema d’animazione di Burbank in quanto è stata certamente la fonte di studio primaria per i miei lavori disneyani, ma aggiungo quello giapponese, quello dei Fleischer Bros, di Tex Avery e di Hanna & Barbera, compresi i character design di Alex Toth.

Vecchio mulino

L’ambientazione perfetta per una storia dei Tre Porcellini!

Di Kingdom Hearts avevo visto solo poche immagini stampate, mi pare concept del videogioco, quando mi chiesero di lavorare sulla sua trasposizione a fumetti. Il mio compito fu cercare di armonizzare i personaggi jappi con quelli disneyani dei fumetti, due mondi che non c’entravano assolutamente nulla insieme (e continuano a farlo). L’armonia che ho cercato di trovare doveva essere quantomeno grafica, ed è stata una battaglia ardua considerando che le rotondità Disney cozzavano pesantemente contro le spigolosità dei personaggi di Kingdom Hearts. Non potendo “irrigidire” Disney, ho ammorbidito quelli. È stata la prima trasposizione mondiale a fumetti, poi credo abbiano in qualche modo proseguito, ma non so dirti con certezza.

Immagine promozionale per Kingdom Hearts.

Sempre a proposito di esordi. Fucina di promettenti autori, Topolino ha lanciato tanti giovani artisti, molti dei quali hanno prestato la loro opera anche per altre realtà editoriali italiane e straniere. Quanto è importante avere in Italia un trampolino di lancio così prestigioso?

In realtà io ho iniziato con il fumetto horror, pubblicando alcune storie per una rivista edita dalla Acme e intitolata Mostri. Quasi contemporaneamente iniziai anche le prove per Disney. Very young. Su Bonelli e Dylan Dog sono arrivato dieci anni dopo. In realtà, questo è un mestiere talmente meritocratico che l’unica cosa su cui puoi contare davvero e ti può “raccomandare” è ciò che sai fare. A nessuno interessa se hai pubblicato per questo o quello, ma solo se sai lavorare bene su ciò che ti viene chiesto di mettere mano.

Va da sé che se lavori per grandi realtà editoriali sei evidentemente già stato “vagliato” da editor di un certo livello, ma nessun editore ti prenderà a scatola chiusa e pubblicherà roba scadente perché hai già pubblicato altrove. Non ci sono né pazzi né masochisti, ma solo imprenditori che con il tuo lavoro devono vendere più copie possibili. E vogliono, giustamente, valutare cosa davvero si fare con i loro personaggi.

Spore

Il lavoro sul bianco e nero per Spore

Un punto importante della tua carriera è la concisa, ma intensa, collaborazione a PKNA: Spore, con Gianfranco Cordara, e la miniserie su Xadhoom, con Tito Faraci. Spore è il primo capitolo di una storia in quattro parti, la prima minisaga pikappica. Un incarico importante e ci immaginiamo avvincente. Io sono Xadhoom è uno scandaglio in un personaggio misterioso, tragico, lontano da noi in mille modi eppure ugualmente sofferente. E vanno ricordati soprattutto i colori peculiarissimi, quasi psichedelici ed estremamente suggestivi, sempre opera tua. Cosa ricordi di quei progetti? Quali sono state le tue ispirazioni grafiche? Cosa ti è piaciuto in particolare nel lavorarci? Cosa ti ha lasciato?

PK è stato un magnifico esperimento e una rivoluzione nei comics disneyani, in cui tutti gli artisti coinvolti hanno cercato di fare il massimo, rompendo gli schemi consolidati del fumetto Disney. Era una sfida ad alzare continuamente l’asticella e ci si stuzzicava a vicenda, fu un periodo molto fertile dal punto di vista creativo. Sia Spore che Io sono Xadhoom nascono in quel contesto, quindi desiderio di grande sperimentazione grafica e narrativa.

In Spore osai tantissimo con l’inchiostrazione, proponendo soluzioni grafiche di bianchi e neri che nel fumetto disneyano non si erano viste spesso. La storia venne poi massacrata dal colore, ma fortunatamente siamo riusciti a ristamparla in bianco e nero sul mio Disney d’Autore, sebbene vent’anni dopo. In Io sono Xadhoom sperimentai invece molto con il colore, testando una tecnica mista che vedeva fondersi tempera, acquerelli, matite colorate, china e soluzioni grafiche spesso vicine al fumetto realistico sudamericano, in particolar modo ad alcune cose di Alberto Breccia, come nelle immagini dei ricordi in bianco e nero in cui usai un mix di oli vari (non colori – oli da cucina!) per preparare parti di foglio prima dell’uso della china, e ottenere densità diverse ed effetti particolari.

Io sono Xadhoom

Sperimentazioni su tavola e colore

Con Tito si lavorava tavola per tavola, ci sentivamo la sera e ci dicevamo: “e qui che ci mettiamo? Facciamoli menare, va’!”, e via dicendo. Quando la Disney francese vide quella storia mi “bannò” per anni da PK, giudicandola graficamente troppo sperimentale e fuori dai loro canoni abituali. Probabilmente, se fossimo stati nel 1600, qualcuno mi avrebbe bruciato su un rogo in Campo de’ Fiori e condannato alla damnatio memoriae, dopo avermi chiesto se fossi pentito dell’eresia e avermi torturato con matite ardenti per farmi ridisegnare la storia in stile anni Trenta. Scherzi a parte, quelle cose erano di certo anticipatorie ma fedeli allo spirito disneyano, anche se evidentemente l’assimilazione non fu immediata per tutti. Ma se non si osa non ci si muove. È stato molto divertente. Poi triste, e poi di nuovo divertente.

Fra le collaborazioni illustri, ricordiamo l’unica con Rodolfo Cimino: Zio Paperone contro Tarzone. Vuoi raccontarci qualcosa in merito?

È stato un onore collaborare con Cimino, uno dei miei miti d’infanzia. Lui realizzava le sceneggiature in forma di layout, con disegni molto belli e divertenti. Io ho cercato di fare il meglio che mi era possibile, come sempre. Ho scoperto con gli anni che quella storia è rimasta nel cuore di molti lettori e mi fa piacere. Avrò avuto circa 24-25 anni quando la realizzai, e mi ricordo che disegnare lo scimmiesco e pacioccoso Tarzone fu una goduria.

Altra storia che in qualche modo è rimasta negli annali, Paperoga e la renna in panne con Alberto Savini, dato che (ci si perdoni l’autoreferenzialità) la statuetta del Premio Papersera ritrae proprio i due protagonisti: sei affezionato a quella storia che è rimasta così impressa anche per i paperseriani?

Alberto è un amico e ci divertimmo un sacco a realizzare quella storia natalizia. La “renna cicciona”, come l’abbiamo sempre chiamata tra noi, ci è rimasta nel cuore. Una storia di disagio rennesco e riscatto degli ultimi, come non amarla? E quella statuetta, poi, era magnifica. Ve ne ringrazio ancora.

Tav. 23 Epic Mickey

Mickey vs Oswald

Nel 2010, avviene per te un vero e proprio ritorno in grande stile, dopo sette anni di assenza dalle testate Disney: esce Epic Mickey, cui collabora anche Paolo Mottura. Ci racconteresti qualcosa sulla genesi del progetto, come e quando sei stato coinvolto? E infine, quanta libertà creativa avete avuto tu e Paolo?

In quegli anni di assenza ho lavorato molto per Bonelli e semplicemente non riuscivo a gestire entrambe le cose. Mi ricordo perfettamente che stavo pedalando in un bosco della Repubblica Ceca sulla mia mountain bike, quando mi squillò il telefono e Roberto Santillo mi propose di realizzare questa storia, che sarebbe stata gestita direttamente dall’Accademia Disney e non dalla redazione. Mi sembrò un progetto interessante e accettai con piacere. Santillo mi chiese di realizzare tutti gli studi preliminari dell’ambientazione e il “mood” della storia, oltre a una tavola di prova.

Passò tutto senza problemi, anzi, con grandi entusiasmi da parte di tutti. La sceneggiatura era del “supereroico” Peter David. Mi spedirono un file da 2 giga con una mole spaventosa di documentazione, che comprendeva tutto l’universo del videogioco fin nel più piccolo dettaglio. Con la connessione di allora, impiegai giorni solo per scaricarla. E poi altri per rintracciare tra le migliaia di file i personaggi sconosciuti a cui Peter si riferiva nella sceneggiatura, vignetta dopo vignetta. Fu un lavoro davvero impegnativo e speciale, a cui sono ancora molto affezionato. Con Paolo, con cui iniziammo in contemporanea e che aveva la seconda parte della storia, ci sentivamo spesso per far collimare i personaggi.  

A proposito di Paolo Mottura, siete quasi coetanei, avete entrambi tratti personalissimi, e sebbene molto diversi vengono talvolta accostati fra loro per la gestione molto “fluida” dei contorni, la potente ispirazione nei dettagli, la facilità ad entrare in atmosfere dense e inquietanti. Ti ritrovi in questo vago apparentamento?

Paolo è un caro amico da trent’anni e compagno di folli viaggi intorno al mondo. Dovremmo scrivere (e illustrare) un libro solo di quello, sarebbe divertente raccontare di tutte le volte che siamo sopravvissuti a pericoli terrificanti nelle giungle, tra le catene andine o nei deserti, altro che fumetti. Il nostro stile di disegno è spesso accostato, ma si tratta di una similitudine superficiale, perché abbiamo modi piuttosto diversi di raccontare, malgrado l’utilizzo molto tecnico e virtuosistico del pennello sia comune a entrambi, come la ricerca di una regia sofisticata che oltre dalle letture deriva dal nostro amore per il cinema. Di certo abbiamo passioni grafiche assimilabili, e ci conosciamo così bene che inevitabilmente qualcuno ha preso un po’ dall’altro e viceversa. Ci siamo certamente arricchiti a vicenda.

Copertina Dracula

L’illustrazione per la copertina della Super De Luxe Edition dedicata a Dracula

Impossibile non citare uno dei tuoi lavori più celebri e riusciti: la “Trilogia Gotica” con Bruno Enna. Ci vorrebbe un’intervista solo per queste tre storie… ma parlaci delle tue ispirazioni grafiche in questi lavori, delle sperimentazioni (il famoso retino digitale), dei rischi che senti di aver affrontato per pubblicare storie del genere su Topolino, e in generale di come è stato lavorare a questo progetto instant classic che è entrato immediatamente nell’immaginario di migliaia di lettori.

Tutto è nato dalla proposta che Valentina De Poli fece a me e Bruno: voleva farci lavorare di nuovo insieme su un progetto “forte”, un caposaldo del cinema e della letteratura horror-gotica, il Dracula di Stoker, a cui poi sarebbero seguiti Ratkyll e Duckenstein. Sapeva che entrambi eravamo appassionati del genere e tra l’altro lavoravamo per Dylan Dog.

Ci chiese – e fu la prima volta da quando lavoravo in Disney – di “osare” e di fare tutto quello che non avremmo mai pensato di fare. Ci avrebbe, in qualche modo, “coperto le spalle”. Naturalmente, tutto sarebbe dovuto stare nei margini dei “paletti disneyani”, ma questo era un avvertimento di cui in fondo non avevamo bisogno, perché noi per primi non avremmo voluto oltrepassarli, conoscendo bene quali fossero e considerando il nostro grande amore per questi personaggi. Fu rischioso, ma non più di altre volte. Più che altro, fu molto difficile.

Ci era stata chiesta una trasposizione molto fedele al romanzo, e le atmosfere dovevano essere quelle, sia per quanto riguardava i testi che per la parte grafica. Ho osato molto, sicuramente, con le inquadrature e il bianco e nero. Avevo ben chiaro in testa il climax che volevo ottenere. Le ispirazioni grafiche furono risicatissime, per una mia precisa scelta. Non volevo farmi condizionare e volevo che quelle visioni fossero solo mie, per quanto sarebbe stato possibile. Va da sé che non si può sfuggire a ciò che hai già visto e letto, siano libri, illustrazioni, fumetti, film sul tema già incrociati. Non si può resettare la memoria a piacimento, ma la si può sfruttare.

Le evocative atmosfere di Ratkyll e Hyde riassunte in un’unica immagine

Non ho ripreso direttamente in mano le fonti grafiche ma ho distillato quei ricordi in un succo nuovo. Aggiungo che, malgrado l’estrema peculiarità dell’approccio, sia io che Bruno volevamo che il risultato fosse totalmente disneyano. Così ci siamo tenuti nei binari, ma spingendo il treno a 500 all’ora. Davvero difficile, ma siamo stati ripagati da un immediato consenso da parte di pubblico e critica. Penso che più di tutto sia riuscita a passare la percezione di un lavoro molto sentito, onesto, pieno di passione e amore per il fumetto.

Ci sono altre collaborazioni in particolare che vuoi ricordare, oltre a quelle citate sinora, o delle storie specifiche a cui sei particolarmente affezionato?

Sarebbero troppe. In questo momento mi torna in mente il lavoro sull’Economia di Zio Paperone, che feci ad inizio carriera, con tutta una serie di illustrazioni che mi servì molto per crescere come disegnatore. Di questo devo ancora ringraziare Massimo Marconi, che credette in me e volle darmi quell’opportunità.

Una domanda sugli ultimi tuoi lavori disneyani: ad esempio la Cornamusa spettrale con Marco Nucci e i già citati Tempi del Klondike con Pietro Zemelo. Si tratta di opere più “canoniche” ma sempre a tinte vagamente horror od oniriche. Com’è stato gestire questo equilibrio?

A volte è difficile scrollarsi di dosso certe etichette, così io dopo la Trilogia Gotica sono un po’ diventato il “disegnatore gotico” disneyano, ma è una cosa un po’ limitante e che lascia un po’ il tempo che trova. Certamente il gotico mi affascina molto e forse è nella mia natura vedere il “meraviglioso” e il magico nelle cose, ma se devo fare una storia horror uso delle atmosfere congrue, se devo fare una storia di fantascienza ne uso altre, se devo fare una storia di Ciccio alla fattoria di Nonna Papera altre ancora (a meno che non ci siano mucche fantasma).

Pippo e la cornamusa, una relazione affiatata

Sei e sei stato un prolificissimo illustratore e in particolare autore di copertine. Proprio negli ultimi mesi sono uscite varie tue copertine di Topolino, apprezzatissime. Ci racconti qualcosa sulla differenza fra disegnare e illustrare? Senti più responsabilità a disegnare copertine oppure in qualche modo è più “rilassante” rispetto a dover entrare nella logica di un’intera storia? Preferisci illustrare copertine “autonome” (vedi quelle del mensile Paperinik) o legate in qualche modo a una storia (come accade spesso su Topolino)?

Sono due lavori apparentemente simili ma in realtà molto diversi. Diversi concettualmente, innanzitutto, perché a differenza di una storia a fumetti una copertina deve narrare una storia in un’unica immagine, non può permettersi tempi morti o vignette interlocutorie, ma sparare un unico colpo fatale. Colpire il lettore dalla vetrina dell’edicola e convincerlo ad avvicinarsi e – si spera – acquistare il giornale. Deve incuriosirlo, colpirlo, affascinarlo. E deve farlo seguendo delle regole.

Per le copertine di Topolino ce ne sono alcune, per quelle di Dylan altre, per quelle di Tex altre ancora e così via. Ci sono differenze concettuali (di narrazione) e grafiche. Su Topolino, ad esempio, il personaggio si deve vedere bene, non può essere in ombra, deve avere certe dimensioni, ci sono un’infinità di accorgimenti che devono essere tenuti in considerazione. Fare copertine è davvero difficile, a prescindere dalla tua abilità pura nel disegno.

Copertina Paperinik

Bozzetto per la copertina di Paperinik 58

Per la tua ultima domanda, posso risponderti che quando lavori su una copertina legata a una storia particolare, hai a disposizione la storia suddetta a cui devi giocoforza ispirarti, quindi hai la possibilità di scegliere tra alcune ambientazioni, alcune situazioni e così via. Le copertine “libere”, come quelle dei mensili, hanno meno costrizioni ma bisogna considerare che partire dal “foglio bianco” non sempre è più semplice, anzi. Per quanto infine riguarda il “rilassamento”, è ovvio che disegnare un’intera storia è infinitamente più lungo e complesso che disegnare una singola illustrazione.

Per Dylan Dog hai realizzato una storia da autore unico molto apprezzata e presto esordirai come autore completo anche su Topolino. Qual è il tuo rapporto con la scrittura?

Ti correggo, ho realizzato quattro storie per Dylan come autore unico, o per meglio dire, la quarta la sto disegnando in questo periodo. Come ne sto realizzando diverse per Topolino, una lunga saga di Paperone scritta e disegnata da me e che vedrà la luce l’anno prossimo. Nel caso Disney, per me è la prima volta. Ma solo fisicamente, perché è da quando ho sei anni che scrivo storie per Topolino, sia sulla carta che nella mia testa. Quindi, per quanto mi riguarda è come se l’avessi sempre fatto, non la vedo come una novità.

Ho iniziato a scrivere contemporaneamente al disegno, e l’ho sempre fatto, da quando ho memoria. Fumetti, racconti, romanzi, libri-game, poesie, saggi, progetti vari. Ho scritto tantissimo, almeno quanto ho disegnato. Molte cose le ho pubblicate, ma moltissime no. Il disegno è talmente impegnativo che chiede davvero tanto tempo, ma non potrei vivere senza scrivere. Pubblicare la mia “prima” storia scritta su Topolino, dopo trent’anni di collaborazione grafica, è davvero una bellissima emozione. Sono felice che sia piaciuta molto in redazione e che mi sia già stato chiesto di… non smettere.

Dylan Duck

Quando i mondi si incontrano

Sempre a proposito di Dylan Dog: com’è stato avventurarsi fuori da Topolino? Avevi sempre pensato di farlo? È stato intenzionale o casuale? Senti dei benefici dall’aver lavorato in ambito Disney, dal punto di vista artistico, quando ti approcci ad altri universi? E viceversa, quanto “porti indietro” a Topolino dalle tue esperienze altrove?

Ci avevo pensato fin da quando lessi il primo numero, nel 1986. Anzi, ancora prima, da quando Giampiero Casertano, il mio “maestro” di fumetto realistico alla Scuola del Fumetto, portò in classe le tavole che stava realizzando per Dylan Dog, che ancora non aveva esordito in edicola. Mi colpì immediatamente e pensai molto volte di provare a propormi, una volta uscito dalla Scuola. Ma poi Disney mi risucchiò completamente e non lo feci mai, anche per paura di non essere ancora all’altezza. Inoltre, Dylan era in quegli anni la testata più ambita in Italia insieme a Tex, e c’erano code chilometriche di disegnatori in attesa.

Finché, dieci anni dopo, la Bonelli stessa mi chiese di collaborare con loro, proprio per Dylan Dog. Abbastanza incredibile a pensarci, anche dopo vent’anni che ci collaboro. Mi chiamarono proprio dopo aver visto una mia storia di Topolino, pensa te. Colpiti dall’uso del bianco e nero. Sui “benefici”, è inevitabile. Ogni esperienza di disegno ti forma e ti arricchisce. Il fumetto umoristico e quello disneyano insegnano il dinamismo, l’espressività, ciò che fa ridere e impatta su alcune emozioni. Il disegno realistico e – nel caso di Dylan, horror – necessita di atmosfere e inchiostrazione completamente diverse, luci, regia particolari, e così via.

Cosa ci racconti degli ambienti che hai frequentato all’estero, in termini artistici?

A Hong Kong disegnavo vestiti Disney in stile anni Trenta e sono fuggito dopo un mese per disegnare fumetti. Nello specifico, PK. In Repubblica Ceca ci ho vissuto dodici anni, e malgrado la sfrenata passione dei cechi per l’arte, il fumetto è ancora poco conosciuto e considerato. Ma la seconda, a differenza della prima, resterà per sempre nel mio cuore.

Non possiamo non concludere chiedendoti di progetti futuri, su Topolino e altrove: cosa bolle in pentola?

In contemporanea alla saga di Paperone, sto lavorando a una lunga graphic novel su Totò: la trasposizione di un soggetto cinematografico inedito di Zavattini e Pietrangeli degli anni Quaranta che ha il beneplacito di Elena De Curtis. Dopo averne scritto la sceneggiatura, ne sto curando disegni e colori. Da grande amante di Totò, è qualcosa a cui tengo davvero molto. Poi sto disegnando una storia di Dylan Dog scritta da me, anche questa a colori e molto sperimentale. La sto inchiostrando con una spatola per il Das. Inoltre sono appena diventato il nuovo copertinista di Paperinik e per un po’ mi vedrete ogni mese sul mensile, oltre che su altre copertine di Topolino. Sto ultimando un romanzo ciclopico a cui lavoro da moltissimo tempo e che racchiude un pezzo importante del mio cuore. Questo è ciò che ho in ballo adesso, poi ci sono naturalmente le cose in divenire, tra cui molte altre storie per Topolino che non ce la fanno più a restare confinate nella mia testa.

Ragion per cui vi auguro buon appetito, nella speranza di poter essere un buon cuoco. Ciao!

Autore dell'articolo: Arturo Calabrese

Arturo Calabrese nasce nel 1989 ad Agropoli, nel Cilento. Impara a leggere sulle pagine di Topolino e negli anni ne diventa un affezionato lettore e collezionista. Giornalista pubblicista, si occupa di cronaca e politica sul "Quotidiano del Sud" per il quale è corrispondente dal Cilento, terra di cui è profondamente innamorato. Le sue fonti di ispirazione vanno da Neruda a Elio e le Storie Tese, da Venditti al ragionier Fantozzi Ugo, da Pascoli all'ispettore Coliandro passando per Che Guevara e Allende. Il piatto preferito è la paste e lenticchie di mamma, ma è molto difficile da trovare...